L'Editoriale
Martedì 04 Ottobre 2016
Referendum attenzione
Democrazia fragile
Il referendum – come strumento di democrazia diretta – sta assumendo il ruolo di termometro del tasso di sofferenza delle democrazie. In diverse parti d’Europa. Nel Regno Unito, culla di antica democrazia, come in Ungheria, Paese nel quale il tessuto democratico poggia su radici assai meno profonde. Le due consultazioni hanno mostrato come il referendum rischi di diventare, negli equilibri politici e costituzionali, l’esatto opposto di ciò che dovrebbe essere: la forma massima di sovranità e di partecipazione.
Le ragioni di questa progressiva torsione, che potrebbe snaturare irrimediabilmente il carattere delle consultazioni referendarie, stanno principalmente in alcune circostanze tra loro strettamente connesse. I governi – a dir meglio, i leader di alcuni Paesi europei – hanno cominciato a far ricorso allo strumento referendario come elemento di legittimazione dell’azione di governo. Una scelta tesa a produrre effetti di saldatura tra i governanti e i governati, tra responsabili politici e cittadini; orientata a garantire la «governabilità».
In realtà, l’abuso referendario finisce per avere un pesante effetto boomerang, azzerando praticamente gli spazi di manovrabilità politica in situazioni complesse, riducendo il confronto a una singolar tenzone nella quale l’unico strumento a disposizione è la spada. Il caso della «brexit» è esemplare, al riguardo, e dovrebbe far riflettere anche su di un fatto non secondario: a volte le vicende portano ad esiti che sfuggono completamente di mano a coloro che pensano di adoperare la «chiamata del popolo» come una scorciatoia per venir fuori da situazioni politiche difficili o per ridare smalto ad una leadership appannata. Si fa la fine dell’apprendista stregone e se ne esce con le ossa rotte.
La parola d’ordine della «governabilità» sembra diventata la sola preoccupazione di tutti coloro che vengono investiti del compito di guidare le sorti di un Paese. Un’ossessione che conduce a sottovalutare i danni, gli strappi, che si producono nel tessuto politico e civile di un paese allorché le decisioni si risolvono in un prendere o lasciare; in un muro contro muro nel quale la mediazione non soltanto non ha spazio, ma viene considerata come un’inutile perdita di tempo.
La qualità del governare si riduce alla somma aritmetica del numero dei provvedimenti e alla valutazione della velocità delle decisioni assunte. Anche a scapito dell’efficacia delle opzioni politiche, della ponderazione nelle scelte, della capacità di ascoltare coloro che possano esprimersi nel merito in modo consapevole e autorevole. Si «semplifica». Tutto viene gettato nel calderone del «sì» o del «no».
In realtà, la pretesa semplificazione si risolve nel suo esatto contrario, poiché la consultazioni referendarie riducono per definizione i margini di approfondimento e gli elettori restano in larga parte estranei al contenuto vero della consultazione. Ignari, spesso, o non in condizioni di cogliere appieno le ragioni di una parte o dell’altra. Si finisce, quindi, per votare senza possibilità effettive di farlo in modo consapevole. Di pancia, piuttosto che di testa.
Nel caso del referendum costituzionale del 4 dicembre la situazione sfiora il paradosso, poiché l’articolo 138 della Costituzione – che pure fa parte del titolo VI (garanzie costituzionali) –non prevede alcun quorum minimo per l’esito della consultazione. Vince chi ha un voto più dell’altro. Fossero pure 100 contro 99. Proprio una bella «garanzia costituzionale».
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