L'Editoriale
Giovedì 29 Marzo 2018
Reddito e povertà
Aspettative e silenzi
Se 900 mila persone nel primo trimestre del 2018 hanno beneficiati di misure anti povertà, vuol dire che il reddito di cittadinanza in qualche modo è già una realtà. È questo il messaggio che l’Inps e il suo presidente Tito Boeri hanno voluto far passare, dando i numeri relativi alle due misure approvate dal governo nella scorsa legislatura: prima il Sia (Sostegno di inclusione attiva) e poi il Rei (Reddito di inclusione sociale), hanno garantito entrate mensili variabili a seconda del numero di componenti dei nuclei, a famiglie in condizione di povertà. Il 73% dei beneficiari è al Sud ed evidenzia una situazione complessiva di deprivazione sociale che spiega anche l’esito elettorale, in certi contesti quasi plebiscitario, del voto del 4 marzo. Grazie alla proposta del Reddito di cittadinanza contenuta nel programma elettorale i grillini hanno conquistato percentuali sorprendenti di consensi.
Oggi il governo e l’Inps possono ribattere che il reddito è una realtà e lo sarà ancor di più a luglio, quando raggiungerà una platea di 700 mila famiglie e di quasi 2,5 milioni di persone. Ovviamente la misura del governo si è dimostrata sostenibile, perché i 2 miliardi previsti nel 2018 hanno una copertura, mentre l’idea messa in campo dal movimento di Di Maio dovrebbe costare nell’ipotesi più benevola sui 15 miliardi, per i quali la copertura è solo sulla carta.
Sia Rei che Reddito di cittadinanza non sono misure «passive», perché il contributo mensile viene assegnato a condizione che gli interessati si impegnino in un percorso di inclusione lavorativa, che viene ovviamente monitorato. Nei costi della riforma proposta dai 5 Stelle è infatti inclusa anche la riforma dei Centri per l’impiego, che dovrebbe avere un ruolo decisivo per rimettere nel giro della vita attiva le persone. Tuttavia va detto che il 23% dei percettori di reddito ad oggi risulta composto da un solo componente, in gran parte dei casi un over 55 disoccupato: un dato che fa capire la complessità dell’impresa e che dovrebbe suggerire di tenere i piedi per terra, evitando di innescare aspettative che molto difficilmente potranno trovare riscontri. Il Reddito di inclusione è una misura di civiltà alla quale l’Italia è arrivata in ritardo perché ha privilegiato forme di protezione come la cassa integrazione che salvaguarda chi è inserito nel mondo del lavoro ma si trova coinvolto in crisi aziendali. Sono invece rimasti scoperti quei vasti ceti sociali che si sono sempre dovuti confrontare con l’assenza di lavoro. Sono ceti concentrati soprattutto al Sud, cioè nella zona del Paese dimenticata dallo sviluppo. Proprio per questo retroterra il rischio di innescare aspettative irrealizzabili è altissimo. Come si può immaginare di reinserire le persone che oggi vivono in territori che negli anni sono stati trasformati in deserti lavorativi? Le varie forme di reddito funzionano se diventano delle leve per un cambiamento. Un cambiamento di cui non si trovano segnali in nessuno programma. Oggi, come ha confessato un sacerdote in prima linea al Rione Sanità di Napoli, la cosa più angosciosa è non poter fare ad un ragazzo la domanda canonica: «Che cosa vuoi fare da grande?». Domanda che in quei contesti è quasi sparita dal lessico comune. Una domanda che non solo non ha risposte, ma che sembra aver perso il significato e quindi lo stimolo che ha sempre avuto per la vita di qualsiasi giovane.
Impegnarsi per il reddito di inclusione dovrebbe implicare anche un impegno, ben più grande, perché quella domanda torni possibile e in circolazione. Oggi da parte di nessuno abbiamo sentito un’idea per andare oltre la povertà attraverso ipotesi di sviluppo. E forse il voto del 4 marzo più che un plebiscito per il Reddito di cittadinanza è un grido di disperazione di un’Italia che non vede prospettive.
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