Quarant’anni fa, via Fani
Un dramma che pesa ancora

La strage di via Fani a Roma, 40 anni fa, e il rapimento di Aldo Moro obbligano ad un viaggio nella memoria collettiva: l’inizio di una tragedia nazionale che si conclude dopo 55 giorni con l’assassinio dello statista democristiano per mano brigatista. Un dramma che pesa sulla biografia dell’Italia, un Paese – diceva questa figura cruciale della vita pubblica – «dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili». Quel 16 marzo 1978 rimanda alla notte della Repubblica, agli anni di piombo che, fra stragismo nero e terrorismo rosso, insanguineranno l’Italia dalla strage di piazza Fontana ai primi anni ’80.

La comprensione storica dell’attacco al cuore dello Stato, il crimine più traumatico della parabola italiana, non può dirsi compiuta benché 5 processi, un paio di Commissioni d’inchiesta parlamentari e una straripante letteratura abbiano illuminato le principali zone d’ombra. Il giurista cattolico Moro è stato un tessitore della democrazia, che capiva la complessità nascosta nelle pieghe della società. Integrare le masse popolari nello Stato era il suo orizzonte. Allargare la democrazia fino alla soglia dell’alternanza, fin lì bloccata dal fattore K (comunismo).

Si spiega così l’architettura morotea del centrosinistra prima e della solidarietà nazionale poi, cioè l’ingresso nella maggioranza (ma non nel governo) dei comunisti. Quella «terza fase» ideata dallo statista come formula transitoria per fronteggiare l’emergenza del terrorismo e la crisi economica seguita al primo choc petrolifero, in un quadrante internazionale in cui la forza dirompente della questione comunista tendeva a indebolirsi. Il più volte premier non era l’unico leader Dc nel mirino brigatista. Per i terroristi si trattava di colpire il simbolo del potere democristiano, ma altre fonti spiegano che l’obiettivo era interrompere la marcia d’avvicinamento del Pci alle istituzioni, riaffermata proprio quel giorno dal varo del governo Andreotti.

Evocato come uno dei più oscuri misteri d’Italia e snodo nevralgico di ambigue prospettive, il dramma Moro s’è appesantito strada facendo di una dietrologia non sempre convincente: fra un presunto intrigo internazionale, inteso come intervento esterno per ostacolare le indagini, e l’inquinamento della P2 nell’apparato di sicurezza. In realtà ancora non si sa il numero esatto dei terroristi presenti in via Fani e i buchi neri riguardano soprattutto il non detto dei terroristi, apparsa come parziale verità. Molto lascia pensare che le Br siano state semplicemente il prodotto dell’Italia anni ’70 crocevia di tante crisi, che ha poi costretto il Pci a fare i conti con il proprio «album di famiglia», mentre un pezzo di sinistra s’attardava nell’inaccettabile «né con lo Stato né con le Br». Mai come allora si parlò del rapporto tra violenza e politica e il confronto fra la linea della fermezza delle istituzioni e quella della trattativa pose al centro un dilemma etico lacerante che ricorre dall’Antigone di Sofocle: il conflitto fra il rispetto delle leggi, la ragion di Stato e il valore della vita.

L’appello di Paolo VI agli «uomini delle Brigate rosse» rimarrà una pagina di grande umanesimo. Conta l’evidente fallimento operativo dello Stato, in una fase in cui comunque la lotta contro il terrorismo non prevedeva un esito scontato e in questo senso s’è rivelato decisivo il ruolo del Pci a difesa delle istituzioni. Ma sono usciti sconfitti anche i brigatisti: l’assassinio è stato l’inizio della loro fine, anche perché la società italiana s’è incamminata nella direzione opposta a quella che avrebbero voluto imporre. In definitiva – come ha scritto lo storico Agostino Giovagnoli – «è probabile che molti protagonisti del caso Moro si siano mossi dentro trasformazioni più grandi di loro e che, in buona parte, sfuggivano a una loro piena comprensione».

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