Quando la musica
è poesia popolare

Philip Roth storcerà il naso, come faranno altri, ma Bob Dylan è finalmente Nobel per la letteratura, dopo anni di promesse mancate, dibattiti finiti nel nulla, proclami disattesi. La svolta è epocale e cade nel giorno in cui se ne va un altro Premio Nobel discusso oltre misura, la buonanima di Dario Fo. Il destino ha voluto che i due si siano passati il testimone in un giorno in cui, per la prima volta nella storia, un folksinger finisce eletto «campione» della letteratura. Da anni il cantautore di Duluth figurava nel novero dei candidati al Nobel, e persino questo aveva fatto discutere.

Il primo commento italiano alla notizia del Premio Nobel per la letteratura conferito a Bob Dylan arriva da Francesco De Gregori. «È una notizia che mi riempie di gioia, vorrei dire non è mai troppo tardi. Il Nobel assegnato a Dylan non è solo un premio al più grande scrittore di canzoni di tutti i tempi, ma anche il riconoscimento definitivo che le canzoni fanno parte a pieno titolo della letteratura di oggi e possono raccontare, alla pari della scrittura, del cinema e del teatro, il mondo e le storie degli uomini. Bob Dylan incarna l’essenza di tutto questo, nessuno come lui ha saputo mettere in musica e parole l’epica dell’esistenza, le sue contraddizioni, la sua bellezza». Il più dylaniano dei cantautori italiani coglie il senso di questo Nobel che va all’uomo alle sue scritture e da quella via alla canzone popolare di qualità. Parafrasando il titolo di un vecchio pezzo, verrebbe da dire che i tempi stanno davvero cambiando, oggi che sembra persin tardi ammetterlo e che su altri fronti sembra che nulla sia lì lì per modificarsi realmente.

Ieri Bob Dylan era la voce di una generazione, le sue canzoni regalavano brividi collettivi agli anni del cambiamento. Oggi quei pezzi di storia appartengono al capitolo di una letteratura popolare che da tempo non riconosce più la discriminazione tra livello «alto» e livello «basso». Le canzoni di Bob Dylan compongono un monumentale corpo poetico, segno di una lunga e tortuosa strada letteraria che aiuta a spiegare l’America in tutte le sue contraddizioni. Dylan è certamente un personaggio controverso, inafferrabile nelle pieghe di uno stile che si rigenera nel tempo, seppur in fedeltà alla tradizione della musica americana delle radici. Accanto alla chitarra, la voce è emissione ben lontana dall’ortodossia del canto. Dietro di essa si cela un fronte poetico tale da rendere legittima l’assegnazione del Nobel a quel vecchio cantautore venuto dal Village.

Sino a ieri Dylan s’era messo in tasca il Pulitzer alla carriera, onorificenza che in America ha un valore altissimo, oggi corona un sogno che non ha mai coltivato davvero. L’indole scontrosa, solitaria, nel tempo ha alimentato il carattere di un combattente alieno alle etichette, refrattario alla prigione che il mito mette addosso a un folksinger globale come lui. Dylan è stato ed è l’uomo del cambiamento, il cantautore dalle mille facce che rispondono a un solo spirito.

Quando arriva il primo avviso, negli Anni Sessanta, le cantine del Greenwich Village newyorkese risuonano di parole. La nuova scena del folk scrive una pagina fondamentale per la musica pop americana. Woody Guthrie e Pete Seeger insegnano gli accordi giusti a un’intera generazione di giovani epigoni. All’inizio il viso di Bob è spigoloso. La chitarra graffia il talking blues. Lo stile è sghembo, sembra il continuum di una tradizione, invece la chitarra annuncia un cambiamento d’epoca. La nuova generazione del folksong, capitanata da Dylan, canta e reinterpreta il folk della Depressione: ne fa una lettura intima, personale, esistenziale. Ne viene un miscuglio d’incertezza, illusione, idealismo.

Dylan però non è l’ennesimo menestrello incamminato sulla strada della tradizione americana. Nella sua voce si annidano i sentimenti di una generazione e i sintomi di una poesia che strappa la canzone alla regola anche commerciale della pop music. Per questo Dylan diverrà l’artista simbolo di un modo di abitare la popular music del tutto peculiare. È il cantautore più autorevole e al tempo sfuggente che il rock abbia mai messo in campo, immagine di un artista che naviga sopra le onde del mercato, al riparo da quella risacca che periodicamente riporta a riva i cascami di un’epoca passata. Anche quando Bob Dylan rende omaggio a se stesso, ai tempi della sua formazione artistica - come accade negli ultimi album pubblicati - la visione non è affatto revivalistica. Dylan è un innovatore, capace di spaziare nei limiti della tradizione sino a farne dischiudere gli orizzonti.

Lavora con le parole, cesella metafore, scolpisce versi che restano nella storia. Li rimastica dal vivo sino a creare altre suggestioni. Grazie a lui abbiamo avuto la percezione delle prospettive che la musica popolare può suggerire ai tempi che corrono. Questo non possiamo chiederlo a nessun altro che a lui, né a Lady Gaga, né ai Rolling Stones. Lo possiamo solo pretendere dall’uomo dal lungo cappotto nero, capace di un racconto planetario che ancora oggi arriva a scuotere chi sa ascoltarlo.

© RIPRODUZIONE RISERVATA