Quando la legge
condanna la carità

Dura lex, sed lex, è un detto di Socrate, che invitava a rispettare la legge anche nei casi in cui è più fredda e rigorosa. Calza a pennello riguardo a una vicenda accaduta il 10 marzo scorso al confine fra Italia e Francia: una guida alpina francese rischia cinque anni di carcere per avere soccorso una donna nigeriana all’ottavo mese di gravidanza mentre stava cercando di attraversare la frontiera insieme al marito e ai figli di due e quattro anni, in mezzo alla neve, a 1.900 metri di altitudine nei pressi del passo del Monginevro.

La guida ha caricato la famiglia in auto per portarla all’ospedale di Briancon ma è stata individuata dalla Gendarmerie: dovrà rispondere di violazione delle leggi sull’immigrazione. Sul confine italo-francese ci sono precedenti analoghi. Nel gennaio 2017 un contadino francese, Cédric Herrou, è finito davanti al Tribunale di Nizza con il medesimo capo d’imputazione. Nello stesso periodo era stato invece assolto Pierre-Alain Mannoni, un insegnante mandato alla sbarra per aver dato un passaggio a tre eritrei che camminavano pericolosamente sull’autostrada appena dopo il confine con Ventimiglia. Un confine lungo il quale a non rispettare la legge è però anche lo Stato francese: è di gennaio la sua condanna da parte di una Corte transalpina per aver respinto un ragazzino eritreo di 12 anni, individuato da solo alla stazione di Menton. Questa volta ad essere violato è stato il diritto internazionale (nella fattispecie la Convenzione sui diritti dell’infanzia).

La vicenda della madre incinta è quindi solo la più recente di un lungo elenco di fatti che si consumano lungo un confine caldo, da quando oltre due anni fa il governo di Parigi ha ripristinato i controlli alla frontiera con l’Italia. Vicenda che si presta ad alcune considerazioni. Innanzitutto la guida alpina ha fatto prevalere la carità (o la solidarietà umana che dir si voglia) sulla legge. Sapeva a cosa andava incontro nel caso fosse stato individuato dai poliziotti, ma ha deciso di affermare le ragioni del cuore (quella famiglia rischiava di morire congelata non essendo attrezzata a resistere a lungo a quasi duemila metri di quota) a quelle dei codici. Non è raro che carità e legge si trovino in dissidio, soprattutto nei luoghi abitati dall’umanità reietta invisa ai benpensanti.

Una seconda considerazione riguarda l’entità della pena per il reato contestato alla guida alpina: cinque anni. Comunque la si pensi, c’è una sproporzione enorme tra l’entità e il gesto compiuto da quell’uomo, che si è prestato a salvare vite in pericolo e non ad arrecare danno all’incolumità di persone. Le leggi non scritte della montagna come del mare del resto prevedono l’obbligo di salvataggio di chi è in pericolo, come sanno bene anche i pescatori di Lampedusa o della Grecia.

Una terza considerazione riguarda le motivazioni della famiglia nigeriana a raggiungere la Francia e una possibile pace: devono essere davvero grandi se, dopo aver viaggiato su un barcone dalla Libia all’Italia, hanno cercato di valicare le Alpi a piedi e nel gelo. E ancora a proposito di motivazioni: nella notte tra il 9 e il 10 marzo scorso al largo del Mediterraneo è stato individuato un piccolo gommone con a bordo tre fratelli, l’ultimo, di 14 anni, malato di leucemia. Hanno sfidato la morte in mare per raggiungere l’Europa e un possibile luogo di cura del tumore al sangue. Non ci sono infatti canali umanitari aperti e rapidi verso il Vecchio continente per rispondere a urgenze come questa. Né la Libia dispone di ospedali con reparti di ematologia. È un Paese nel caos, in preda a bande armate, trafficanti d’uomini e militanti dell’Isis. Tutto ciò è l’esito della guerra del 2011, priva di un piano per il dopo Gheddafi. A guidare il conflitto c’era proprio la Francia.

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