L'Editoriale
Sabato 31 Dicembre 2016
Putin ignora Obama
Novità con Trump?
Vladimir Putin se la ride e non cade nella trappola delle contro-sanzioni di rappresaglia contro gli Stati Uniti. Il capo del Cremlino sa perfettamente che l’Amministrazione Obama uscirà di scena entro tre settimane e certi passi avventati potrebbero compromettere le future relazioni con Donald Trump. L’epoca della politica muscolare nei rapporti tra le due superpotenze della Guerra Fredda viene così per il momento accantonata nell’attesa dell’insediamento del nuovo inquilino alla Casa bianca. Non importa che il presidente abbia smentito il proprio ministro degli Esteri, che aveva già pronta la lista dei diplomatici Usa da rispedire oltreoceano. Anzi i bambini americani delle rappresentanze statunitensi a Mosca sono stati invitati al Cremlino per le feste di fine anno. I tempi sono cambiati ed è l’agenda Trump a far soffiare il vento della politica internazionale verso altri lidi. Vladimir Putin lo sa e non ha voluto creare ulteriori grattacapi al neopresidente a stelle e strisce.
Ad esempio, Donald Trump dovrà riuscire a far approvare al Senato Usa la candidatura alla segreteria di Stato di Rex Tillerson, già insignito dal Cremlino di una medaglia al merito qualche anno fa. E l’operazione non sarà affatto facile, poiché i repubblicani godono solo di due seggi di vantaggio alla camera alta statunitense e molti loro senatori sono «russofobici», come si usa dire nel gigante slavo. Se questa candidatura non dovesse andare a buon fine è già pronto Mitt Romney, famoso per aver denunciato nel 2012 la pericolosità della Russia, considerata «il nemico geopolitico numero uno» degli Stati Uniti.
Stesso complesso discorso riguarda l’ammorbidimento delle sanzioni, soprattutto quelle finanziarie che non permettono ai russi di ottenere crediti a medio e a lungo termine, elemento fondamentale per investire nei progetti energetici, cuore dell’economia federale.
Nella strategia del neopresidente Usa la Russia è utile soprattutto in funzione anti-cinese – vettore centrale della prossima politica estera statunitense (come lo era per George Bush prima dell’11 settembre) – e Mosca va riportata nell’orbita occidentale sfruttando la collaborazione nella lotta anti-terrorista.
Il Cremlino parrebbe disposto a rivedere in parte il proprio posizionamento anche perché l’amicizia a tutti i costi con Pechino «per un mondo multipolare» è terribilmente dispendiosa sotto forma di contratti poco convenienti fin qui siglati in campo energetico. Inoltre il popoloso vicino ha un’economia in forte espansione a fronte di una Russia in difficoltà dal punto di vista demografico ed in pesante recessione.
Avere a che fare con un tale concorrente in Asia centrale ex sovietica nei prossimi anni non sarà assolutamente facile. Soprattutto, quando in Kazakhstan (che ingloba parte della Siberia meridionale) si dovrà gestire il dopo Nazarbaiev, fin qui «padre fondatore» della repubblica ex sovietica.
Nello spazio ex sovietico, considerato da Mosca il proprio «cortile di casa», russi ed americani potrebbero, quindi, decidere di non pestarsi i piedi per un po’ di tempo. La questione ucraina e quella della Crimea dovrebbero congelarsi. Vladimir Putin ottiene in pratica quello che voleva, ossia il ritorno alla concezione di un mondo diviso in sfere di influenza nella politica internazionale.
Ecco perciò spiegato il perché il Cremlino sta forzando i tempi in Siria, vista in origine come merce di scambio per l’Ucraina. Ritirarsi al più presto da quello scenario, lontano migliaia di chilometri dalle proprie frontiere, e dalle troppe problematiche logistiche militari è l’unica garanzia per non restare impantanati in questioni irrisolte per decenni.
Il pericolosissimo rilancio siriano di Vladimir Putin del settembre 2015 sta dando i suoi frutti. Pensare di rimanere sul terreno a fare da pacieri è invece troppo rischioso. Anche perché gli Usa, ritirandosi da certi scenari non più strategici come un tempo, lasciano spazio ad altri Paesi partner.
Dalle sue dichiarazioni in campagna elettorale Donald Trump non intende sprecare dollari in azioni militari all’estero dove gli interessi Usa non siano centrali. L’epoca in cui lo zio Sam pensava a tutto volge al suo termine. Gli europei sono avvertiti: se vogliono la sicurezza dovranno pagarsela.
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