Pubblico impiego
merito e politica

Premiare i dirigenti migliori, licenziare quelli immeritevoli o disonesti, pretendere efficienza operativa ed efficacia d’azione nella guida degli apparati pubblici. È ciò che si propone il decreto approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 25 agosto. Le norme vengono fatte passare come una vera rivoluzione che cambierà il volto dell’amministrazione pubblica italiana.

C’è da essere cauti, in proposito. Se non addirittura scettici. Non per preconcetta sfiducia, bensì per il fatto che la strada imboccata non fa che ripetere errori compiuti ogni volta che si è tentato di dare funzionalità al sistema pubblico. Dal 1993 le norme sui dirigenti pubblici hanno puntato sulla privatizzazione, come strumento adatto a risolvere il problema della rigidità degli apparati amministrativi. Si iniziò con dirigenti di «seconda fascia» e si continuò cinque anni dopo, privatizzando anche i dirigenti di vertice. Mai una soluzione si è dimostrata più illusoria e sbagliata. I fatti hanno dimostrato che i mali delle amministrazioni non si sono risolti e la precarizzazione del ruolo ha reso la dirigenza pubblica maggiormente permeabile alla pressione politica. Esemplare, al riguardo, la scellerata soluzione che ha portato alla pratica dissoluzione della categoria dei segretari comunali, una delle burocrazie tecnicamente più attrezzate dell’amministrazione italiana.

Il prossimo 24 ottobre saranno centocinquant’anni dall’emanazione di un decreto – voluto dal «barone di ferro», Bettino Ricasoli – mediante il quale si intendeva dare autonomia decisionale ai funzionari di vertice dei ministeri. Il decreto fu affossato in Parlamento perché prevalse l’idea che esso ledeva il principio della responsabilità unica del ministro sull’operato di istituzioni che erano sotto il comando politico.

Ad un secolo e mezzo di distanza a riprovarci è un altro toscano, che pensa di risolvere con le «pagelle» la scarsa funzionalità del sistema pubblico. In vero, la questione meriterebbe soluzioni un po’ più articolate. In primo luogo è da scartare radicalmente l’idea di modellare la dirigenza pubblica su quella del settore privato. Si tratta di una bufala solenne. I dirigenti hanno, come scriveva l’allora ministro Massimo Severo Giannini, un munus pubblico e privatizzarne il rapporto d’impiego è semplicemente un nonsenso.

Gli aspetti da tenere in considerazione sono altri. È opinione corrente che i dirigenti pubblici siano troppi. Forse il numero complessivo non è esagerato, ma di certo vi sono squilibri di vario genere. A cominciare dalla distribuzione tra uffici centrali (zeppi di dirigenti con compiti quasi irrisori, adeguati a quelli di un semplice funzionario) e uffici periferici nei quali a volte mancano risorse adeguate.

Dolente il tasto delle progressioni di carriera e delle nomine dei vertici. La scelta di un unico livello dirigenziale, spacciata come l’uovo di Colombo, è opinabile. Su questo punto invece occorre guardare alle imprese nelle quali esistono vari gradi (capo reparto, capo area, fino a posizioni di vertice).

Ma l’aspetto più critico è la tanto decantata meritocrazia. Che in realtà non viene praticata. Anzi, occorre prendere atto di una circostanza tanto dolorosa quanto incontestabile. Da sempre, marcatamente negli ultimi decenni, la politica ha preferito (salvo eccezioni) circondarsi di dirigenti addomesticabili, piuttosto che cercare di valorizzare i più competenti.

Ciò non implica che non vi siano politici accorti che puntano sulle energie migliori presenti nelle amministrazioni e dirigenti che sanno operare proficuamente, anche contrapponendosi a politici mediocri. Ma, nell’insieme, continuano a prevalere logiche che mortificano i funzionari più meritevoli, aprendo varchi a quelli che godono di appoggi politici. Chi governa dovrebbe interrogarsi su questo, prima di architettare soluzioni ardimentose e scarsamente efficaci.

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