L'Editoriale
Lunedì 17 Novembre 2014
Povero l’Euro
se Merkel non molla
L’austerità non è la risposta alla crisi. Un giudizio tombale per chi pensa solo al pareggio di bilancio. Il G20 di Brisbane avrebbe dovuto sancirlo nel comunicato finale. Obama lo voleva, il britannico Cameron, il francese Hollande, il padrone di casa australiano Abbot ci contavano, gli altri emergenti erano d’accordo, Renzi non vedeva l’ora, ma ecco che si alza la signora di Berlino e dice no.
Risultato: tutti zitti, e con la coda tra le gambe se ne sono tornati a casa. Non c’è istituzione internazionale che non denunci il fallimento della politica economica europea degli ultimi anni. Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale, ritiene il Fiscal compact – cioè l’obbligo, crisi o non crisi, di rispettare i vincoli di bilancio – un obiettivo nelle attuali circostanze irrealistico.
A Berlino l’hanno massacrata di critiche. Ma chi comanda allora nel mondo? La Germania è leader nella manifattura. Gli Stati Uniti hanno imparato dalla bolla finanziaria del 2007 che l’industria è strategica per l’economia. Dal 1998 al 2012 hanno perso sei milioni di posti di lavoro per le delocalizzazioni, e adesso riportano a casa le produzioni a valore aggiunto con l’obiettivo di quattro milioni di nuovi posti di lavoro. Ma si stanno ancora leccando le ferite: hanno un deficit della bilancia commerciale di 610 miliardi di dollari. Francia e Gran Bretagna sono anche loro in rosso rispettivamente di 34 e 99 miliardi di dollari. Chi avrebbe titolo a dire la propria sono i cinesi, i giapponesi e i sudcoreani che vantano surplus commerciali consistenti , ma sono decentrati rispetto all’Occidente.
Se guardiamo all’Europa e al mondo transatlantico l’unica che potrebbe alzare la voce è la cenerentola del continente, quell’Italia che ha zero in autostima ma oltre cento miliardi di dollari di attivo della bilancia commerciale. Gli italiani producono e esportano con successo ma nella depressione generale se ne sono quasi scordati. Allora, se il sistema produttivo tiene e la competitività italiana dell’industria si afferma sui mercati esteri, perchè la loro parola a livello europeo e internazionale vale nulla o quasi nulla? Da una parte abbiamo la Germania che ha un’economia sociale di mercato fondata sull’industria e l’innovazione e detta legge, dall’altra abbiamo l’Italia che ha la stessa struttura produttiva, non è caduta nella bolla finanziaria del 2007, supera Francia e Gran Bretagna come seconda industria manifatturiera del vecchio continente ma ha sempre l’acqua alla gola.
Un problema che Renzi si è posto: e infatti si dimena, cerca spazio e si fa sentire. Nei consessi internazionali è accolto con simpatia, ma sembra più per la sua esuberanza e la giovane età che per la serietà del Paese che rappresenta. Il problema è che mentre il governo italiano lega la caduta del reddito nazionale alla congiuntura negativa e quindi chiede più investimenti e soprattutto più libertà di manovra con i bilanci, dall’altra rispondono che il problema vero è strutturale e non del momento. Non avete fatto le riforme e adesso siete lenti a metterle in cantiere, è il monito che viene dal Nord Europa. Morale: non ci fidiamo. Agli anglosassoni non importa come si raggiunge un obiettivo, l’importante è arrivarci. Per i tedeschi invece conta più il come e questo deve avere una legittimità morale, cioè deve essere frutto di sacrifici. Proprio quanto le piazze italiane di questi giorni vorrebbero evitare e per le quali l’Europa della signora Merkel comincia a pesare. Se l’obiettivo è fare degli italiani dei tedeschi mediterranei, allora una certezza l’abbiamo: l’euro non ha futuro.
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