Povera Italia
fragile e precaria

L’Italia è sempre più un Paese precario. La pallida ripresa (più uno per cento di Pil, se va bene, ma come è noto la questione è piuttosto controversa) non riesce a rimediare a quella fragilità che si riflette nei dati offerti da numerosi fenomeni economici e sociali. Ieri ad esempio sono stati diffusi i dati sull’occupazione da parte dell’Osservatorio del precariato Inps. Dati sconfortanti: nel 2016, da gennaio ad agosto, c’è stato un massiccio rallentamento delle assunzioni a tempo indeterminato, con ben 395 mila contratti a tempo indeterminato in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Significa che venendo meno le agevolazioni contributive e fiscali offerte lo scorso anno dalla Legge di Stabilità gli imprenditori non hanno assunto.

Tra l’altro la Legge di Stabilità riprende quel provvedimento e alla luce dei dati Inps non sappiamo quanto potrà essere determinante nel favorire nuove assunzioni stabili. Ad ogni modo sono tornati in auge i contratti a tempo determinato, nonostante la legge sul lavoro (il Jobs Act) li abbia resi sfavorevoli. E come se non bastasse, stiamo allagando il Paese di voucher, la foglia di fico del lavoro in nero – la grande piaga sociale italiana, soprattutto del Meridione – o dei «lavoretti» offerti a poco prezzo, soprattutto ai giovani super sfruttati e malpagati come ai tempi della rivoluzione industriale.

Ma non ci sono solo i contratti di lavoro a rendere fragile questo Paese. L’Abi ci fa sapere che i prestiti alle famiglie e imprese sono praticamente fermi, non crescono. Tra l’altro, come ci fa sapere l’Osservatorio di PrestitiOnline.it, i prestiti maggiormente erogati sono quelli per la ristrutturazione della casa e per l’acquisto dell’auto, ma usata. Significa che in poco meno di un decennio è completamente cambiato il nostro stile di vita, improntato a un minore benessere e a soluzioni sempre più «economiche».

Prevale l’arte di arrangiarsi, anche a proposito di quello che era un vero e proprio mito degli italiani, l’automobile, con conseguenze importanti anche per la produzione (e quindi anche per l’occupazione).

L’Italia è un Paese che rischia di avvitarsi su se stesso, con poche prospettive legate al suo futuro se è vero che due milioni e mezzo di giovani non studia e non lavora (i cosiddetti Neet) e più della metà dei giovani sotto i 25 anni ha un lavoro precario (il 57 per cento, per la precisione). La disoccupazione giovanile è oltre il 40 per cento, al Sud è al 70 per cento.

Se gli imprenditori non chiedono denaro in prestito per investire una delle ragioni principali è che non hanno voglia di innovare. E il motivo è presto detto: la maggior parte delle aziende vedono al timone anziani o manager di mezza età. E difficilmente vedremo anziani che hanno voglia di innovare, di rischiare, di creare nuove start-up, di tentare nuove avventure, nuove soluzioni, nuove strade. Con le dovute eccezioni naturalmente, perché lo spirito giovanile di impresa può appartenere anche a un ottantenne, come testimoniano molte aziende del Made in Italy.

La realtà però resta sconfortante, gli «animal spirits» dell’economia, gli «spiriti animali» che hanno voglia di impresa a livello quasi istintivo di cui parlava il noto economista John Maynard Keynes sono soprattutto giovani, non certo anziani: la fragilità del nostro Paese si deve a una piramide rovesciata che vede i vecchi ai posti di comando e i giovani disoccupati. Come possiamo pretendere di uscire dalla crisi, di tornare a spiccare il volo, se quasi la metà degli «spiriti animali» italiani è tenuto ai margini del mercato del lavoro?

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