Polizia francese
e ambiguità americane

La strage di venerdì è molto più grave di quella di Charlie Hebdo e non solo perché il tributo di sangue è molto più alto. È più grave perché porta nel cuore dell’Europa tecniche terroristiche mediorientali, al contempo semplici (cosa ci vuole ad aprire il fuoco con un mitragliatore su un gruppo di civili inermi chiusi in una stanza?) e sofisticate per la simultaneità degli attacchi e per il ricorso ai kamikaze. Prima di Parigi, solo Madrid e Londra sono state colpite in questo modo.

Ma qui è peggio, per la simbologia degli attacchi, sferrati non in un bus o in un treno dei pendolari, ma di fronte a uno stadio dove era in corso la partita Francia-Germania, alla presenza di Hollande, che le televisioni hanno mostrato davvero atterrito. I terroristi hanno fatto irruzione in un locale dove suonava una banda americana di fronte a un pubblico cosmopolita, simultaneamente hanno mitragliato i clienti di un ristorante asiatico e di uno italiano. Volevano mostrare la loro potenza e colpire, simbolicamente, tutto l’Occidente attraverso la Francia e i suoi turisti.

E’ stata un’azione da professionisti della guerriglia. Fino al primo pomeriggio di sabato la polizia francese non è stata in grado di individuare con certezza non solo i terroristi ma neppure le vittime. La sua inadeguatezza è amplificata da un dettaglio: ai primi di ottobre, dunque poco più di un mese fa, l’intelligence di Parigi aveva dichiarato di temere un 11 settembre francese. Perché non è stata in grado di intercettare i terroristi? Perché non sono state prese misure di prevenzione? La risposta è ovvia e gravissima: non hanno nemmeno sospettato che i terroristi potessero colpire proprio venerdì sera. Un disastro assoluto che ora proietta una sensazione di vulnerabilità e di insicurezza su tutti i Paesi europei. Nessuno da ieri sera si sente davvero al sicuro, perlomeno nelle grandi città: Londra, Roma, Washington che sono già state indicate come i prossimi obiettivi.

Da chi? Non ci sono dubbi: dall’Isis. E chi aveva dubbi sulla necessità di combattere l’estremismo islamico senza se e senza ma, ora dovrà ricredersi. Il Califfato è una minaccia gravissima non solo per tutto il Medio Oriente e il mondo arabo ma anche per i Paesi che sono più vicino al Nord Africa e alle prime coste asiatiche: siamo noi europei.

E non possiamo non chiederci se l’Occidente abbia fatto tutto il necessario per arginare la nascita di un Califfato che è molto più pericoloso di Al Qaida. L’organizzazione di Bin Laden era radicata in Afghanistan e colpiva sporadicamente fuori dai confini. L’Isis invece controlla ampie zone della Siria e dell’Iraq e la sua influenza tende ad estendersi all’Egitto e alla Libia. Ed è un magnete per migliaia di disperati, disadattati – spesso europei islamici di seconda o di terza generazione – che lasciano il Vecchio Continente per combattere al fronte, per poi tornare gridando Allah Akbar.

Il problema e’ che fino a oggi l’Occidente non ha dimostrato una vera determinazione a combattere l’Isis. Anzi, non ha resistito alla tentazione di strumentalizzare la «rivolta» siriana. Fuor di metafora: per troppo tempo i guerriglieri dell’Isis e affini sono stati finanziati e addestrati dal Qatar, dall’Arabia Saudita, dai turchi, con il beneplacito e in certi frangenti il supporto attivo degli americani, allo scopo di cacciare Assad. Il quale, contrariamente a Gheddafi, non è caduto e oggi è paradossalmente un indispensabile argine contro il fanatismo religioso dell’Isis. O almeno così appare a Putin. Gli americani sembrano ancora più interessati alla destituzione di Assad che a fermare una volta per tutte gli uomini neri. Forse la strage di Parigi li indurrà a cambiare linea.

© RIPRODUZIONE RISERVATA