Politica estera
al servizio dei partiti

L’Italia è in Afghanistan da 17 anni, ha avuto 54 morti e speso quasi 7 miliardi di euro. Per il ministro Elisabetta Trenta è tempo di chiudere. Lo dice in modo chiaro e con una perentorietà inusuale per i politici di casa nostra. Una decisione, quella italiana, presa in solitudine quando alla Nato la discussione è ancora in corso. Nemmeno il ministro degli Esteri ne era informato. E questo indica che sul tema anche il governo ha diverse posizioni al suo interno. Se il ministro della Difesa voleva offrire determinazione ha ottenuto l’effetto contrario presso gli alleati dell’Italia. Come prendere sul serio una decisione non condivisa dal ministro degli Esteri? Scelte strategiche richiedono unanimità di consenso. L’interesse di partito è invece chiaro e evidente: i Cinque Stelle in svantaggio nei sondaggi nei confronti della Lega cercano di recuperare il favore perduto presso i propri simpatizzanti. E sembrano riuscirci visto l’alto gradimento ottenuto dall’annuncio.

Si ripete quello che è ormai una costante di questo governo: strappi a favore del proprio partito a spese della credibilità nazionale. E tuttavia il ministro ha posto un problema strategico: l’Afghanistan è lontano e l’Africa vicina. Da quando Trump ha fatto sapere di volersi ritirare da Kabul, nulla resta come prima. Si può discutere su questa capacità americana di iniziare guerre lontane mille miglia da casa e poi scoprire di non poterle vincere. Il Vietnam su tutti. Non solo, ma di lasciare poi il campo al nemico combattuto per anni.

Nel caso dell’Afghanistan venir via vuol dire permettere il ritorno dei talebani. Quelli stessi che ospitavano Bin Laden e che avevano indotto il presidente Bush junior a voler estirpare il male del terrorismo alla radice. Gli Stati Uniti tornano alla politica del cortile di casa, si veda il Venezuela, e gli alleati incominciano a pensare anche loro quali siano gli interessi più immediati per i loro Paesi. La Francia lo ha capito in fretta e infatti ha lasciato il campo afghano da tempo, dal 2014 per l’esattezza. Un lusso che la Germania non poteva permettersi data la sua storia e l’obbligo di dimostrare fedeltà all’Occidente. L’Italia in ragione della sua debolezza economica e della sua instabilità politica ha sempre avuto bisogno del sostegno americano. Ha condotto una politica ambivalente nel Mediterraneo appoggiando i Paesi arabi e i palestinesi anche quando a Washington e a Tel Aviv la cosa dispiaceva, ma quando il potente alleato chiedeva collaborazione Roma ha osato contraddirlo una sola volta. Con Craxi nel 1985, ma fu un episodio.

Adesso siamo soli ed abbiamo la benedizione dell’amministrazione Trump. Il ministro Trenta ne è consapevole e stabilisce quali sono gli interessi nazionali immediati: il Mediterraneo e l’Africa. Disporre truppe nel Niger per controllare i flussi migratori e le possibili infiltrazioni di cellule terroristiche ha quindi più senso. Sennonché il protagonismo italiano trova il suo naturale ostacolo nella Francia, abituata a dettare legge nell’area. Un retaggio storico che affonda le sue radici nella colonizzazione dell’Algeria e soprattutto nel protettorato della Tunisia, sottratta nel 1881 all’influenza italiana, quando Roma cercava la quarta sponda. La Francia ha già dimostrato in Libia la volontà di subentrare all’Italia e di cogliere i frutti delle indecisioni italiane. Col governo Berlusconi se lo potè permettere e diede il via all’eliminazione di Gheddafi. Ora sono cambiati gli scenari e ben venga una politica di affermazione degli interessi nazionali dell’Italia in modo chiaro e univoco. Ma per questo non bastano gli annunci, ci vuole concordia nazionale.

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