Piano economico
Governo alla prova

È molto scomodo per la maggioranza di Governo, l’appuntamento con il documento di economia e finanza, il Def, che, dovrà impostare gli esiti di un 2018 ancora lontano, accompagnato subito da una manovrina di circa 3,4 miliardi, quella dello 0 virgola in meno di deficit 2017, fortunatamente fronteggiabile con la cassa della rottamazione delle cartelle. Le scelte da fare, sotto minaccia di uno spread sopra i 200 punti, sono strette in una tenaglia molto impietosa: da un lato l’attesa severa dell’Europa, dall’altra la lunga vigilia elettorale che fatalmente è densa di spese e promesse. Oltretutto, si corre ad handicap, partendo da -20 miliardi, la quota di non aumento dell’Iva che occorre neutralizzare, prima ancora di cominciare a impostare il resto del lavoro, che potrebbe arrivare a 35/40 miliardi complessivi, forse più dello 0,2 del Pil.

Rispetto agli anni che presto ricorderemo felici del denaro a costo zero, nel 2018 dovrebbe finire l’effetto dello scudo protettivo di Draghi, il petrolio potrebbe cambiare prezzo tra un bombardamento e l’altro, e sconteremo comunque le svolte 2016 nel Regno Unito e in Usa. I nostrani inseguitori sovranisti di Trump e Putin, dovrebbero sapere che queste sono novità pesanti per un Paese esportatore, e magari qualche padano dovrebbe dare un’occhiata ai 112 miliardi dell’export lombardo, di cui 8,1 miliardi verso gli Usa, quasi quanto l’intera Spagna. Altro che poche bottiglie di acqua minerale (bergamasca) e due motorini, come minimizza Salvini.

Per completare il quadro, non aiuta certamente la crisi di identità del nostro sistema politico, privo di una legge elettorale e con un perno costituzionale che ha resistito formalmente, ma è uscito malconcio da una lunga campagna di delegittimazione. Questa manovra potrebbe essere l’ultima prima del caos, cioè del vuoto decisionale indotto da elezioni senza vincitori, dopo una campagna elettorale condizionata dalla rincorsa autolesionista del populismo, e del tutti contro tutti proporzionalistico, che impedirà fin d’ora quello che nel 2013 fu consentito da una maggioranza incostituzionale e malmostosa, ma larga almeno alla Camera e che ora non ci sarebbe più, stando alle proiezioni.

Varrebbe dunque la pena che fosse una buona manovra, che metta al sicuro qualche elemento di forza per il Paese, prima di tempi sicuramente peggiori, perché da tutti questi guai ci può tirar fuori solo una ripresa al 2% almeno, ma ancora ce la sogniamo. Nella scelta tra politiche economiche di risanamento o di espansione, sarebbe bello tentare il doppio colpo di metterle insieme, ma l’esercizio è dei più acrobatici, con un ministro dell’Economia che è già stato bruscamente allertato perché non faccia mosse troppo tecnicamente personali: niente aumento di benzina e Iva, freddezza sulle privatizzazioni, rallentamento di passaggi già decisi, come il nuovo catasto, in effetti fino a oggi ridicolo nei valori, che comunque non può diventare diabolico nell’aggiornamento.

Eppure, alcune priorità vanno comunque indicate. La Corte dei Conti ci ha appena ricordato che le imprese pagano imposte e contributi per più del 25% rispetto ai concorrenti e che il cuneo fiscale è 10 punti più largo di quelli europei, con il 49% dei salari mangiati da tasse e contributi, e un pensiero qui va fatto, dopo la saga degli 80 euro, che sarà stata un colpo di immagine, ma aveva colto questo problema. Il tema delle privatizzazioni non va nuovamente demonizzato e fa bene Padoan a resistere alle pressioni negative, visto che lo Stato ha partecipazioni per 80 miliardi. Evitando però le vie di mezzo, come utilizzare la Cassa Depositi e Prestiti, cioè lo Stato, per far finta di cedere quote al mercato.

E comunque privatizzare non vuol dire niente senza liberalizzare, e soprattutto senza chiudere la strascicata questione della legge sulla concorrenza. È un tema sul quale il ministro Calenda, forse il più lucido dei ministri in carica, ha messo la faccia, così come sul fondamentale progetto industria 4.0, e non a caso è stato ultimamente isolato. Già il testo ha perso tanti pezzi dal suo trionfalistico varo nel 2015, e altri sembra debba perderne, ad esempio sul tema delle bollette elettriche da mettere davvero in concorrenza. E poi ci sarebbe il capitolo della spesa, da tagliare e da qualificare. Senza investimenti pubblici, i conti italiani non si rialzano. La curva degli ultimi anni è impressionante: un crollo di 20 miliardi dal 2009, ancora accentuato nel 2016 (-4,4%). Il capitolo investimenti non può fermarsi ai danni del terremoto, ma se mai mettere soldi per prevenire nuovi disastri.

E infine l’eterna questione europea, con la richiesta, dopo il flop referendario, di riforme in cambio di flessibilità, anche se ne abbiamo già avuta per 19 miliardi (e il debito quindi sale sempre), ma non ci entusiasmano acronimi di stampo un po’ sovietico, come il Pnr, «piano nazionale delle riforme». Un governo riformista non ha bisogno di definire se stesso con sigle altosonanti. Le riforme le fa, non le inscatola dentro un contenitore dirigista.

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