L'Editoriale / Bergamo Città
Domenica 13 Marzo 2016
Per un pugno
di dollari e di voti
È del filosofo pop Slavoi Zizek lo sguardo più penetrante sulla politica americana di questi giorni. Giorni di campagna elettorale, candidati che si prendono a sportellate, milioni di dollari bruciati sull’altare della democrazia. Tutti guardano Donald Trump e quel che vedono è l’insostenibile pesantezza della sua volgarità. Attacchi razzisti (contro gli immigrati messicani), perfidie che instillano il dubbio sul luogo di nascita di Obama e i suoi diplomi universitari, attacchi sessisti contro le donne, offese agli eroi di guerra come John McCain.
In realtà, insinua Zizek, non abbiamo a che fare solo con la politica, ma con tutto quel densissimo retroterra di regole (non scritte) che controlla la vita sociale: la spessa e impenetrabile sostanza etica che ci dice quello che possiamo e non possiamo fare. Ebbene, queste regole, secondo il pensatore sloveno – uno dei più originali e controversi intellettuali contemporanei – oggi stanno saltando per aria. Quello che fino a solo pochi anni fa era semplicemente impensabile e/o impossibile da pronunciare durante un dibattito pubblico, oggi può essere detto nella più totale impunità.
Catalogato sbrigativamente come alfiere della destra estrema, Trump incarna benissimo questa tendenza all’imbarbarimento della vita pubblica. Il tycoon con moglie bellissima non cerca il consenso su un programma, ma su un comportamento, per di più politicamente scorretto. Stenta ad avere cittadinanza nel suo partito però rischia di diventare il presidente degli Stati Uniti. Se vincerà, avrà dimostrato che l’unica critica davvero corrosiva al capitalismo non viene dall’anticapitalismo, ma dall’antipolitica. A noi europei con la puzza sotto il naso ricorda il Dittatore del film di Charlie Chaplin, in realtà nessuno come lui è bravo a farsi capire dalle classi popolari: le conosce benissimo, suo padre si è arricchito costruendo a New York case a basso costo, edilizia residenziale per i più poveri.
È un miliardario che parla come un teppista e pensa come un giacobino. Intercetta la collera suscitata dalle disuguaglianze sociali, i salari bassi, la paura di nuove crisi economiche in un mondo dominato da banche, multinazionali, finanza. Prigioniera di una precarietà economica e culturale, l’America profonda vive una crisi di rigetto per i partiti tradizionali e le dinasty familiari (Bush, Clinton...) che ingolfano il ricambio democratico.
Percepito come candidato anti sistema, Trump avanza nelle primarie con la potenza di un bulldozer e la delicatezza di una mandria di bisonti. E fa niente se ieri, per la prima volta dall’inizio della campagna elettorale, il frontrunner repubblicano è stato costretto a cancellare un raduno a Chicago per motivi di sicurezza, dopo che molti suoi contestatori erano entrati nell’arena dove era atteso per un comizio.
Più supera i limiti della decenza, più i suoi fan vedono in lui l’antidoto al sistema della politica giudicato, alla maniera grillina, «marcio». E i soldi di cui dispone, tanti, tantissimi, ma forse meno di quelli che sbandiera, non disturbano affatto i poveri, che lo preferiscono a Hillary, certamente di sinistra, ma percepita come aristocratica. Con il suo parrucchino inguardabile Trump vuole convincere che, a dispetto della sua vagonata di miliardi, lui è uno normale. E il disprezzo con cui viene trattato dai giornali compatta il suo popolo: un po’ come accadeva con il primo Bossi che, deriso dalla stampa, volava nei consensi.
Sparigliando la scena politica, Trump incarna quello che alcuni politologi hanno iniziato a chiamare «centro radicale» o «centro estremista». Essere «estremista di centro» non significa spostare da qualche parte il cursore sull’asse sinistra -destra, bensì far sparire questo asse. Non in nome della politica, e men che meno di un’ideologia, ma di un istintivo, semplicistico «buon senso».
Essere un «radicale di centro» non vuol dire solo presentare la propria posizione come equilibrata, ma non tollerare niente che non si auto-definisca come centro equilibratore. Trump sta apparecchiando la rivincita del Terzo Stato americano. Mette insieme il proletariato 2.0 e il ceto medio. Basta e avanza per vincere.
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