Per Trump l’Europa
è solo la Germania

A Washington lo vogliono dai tempi di Henry Kissinger. Convinti di dover cercare a Bruxelles, i presidenti americani sono passati da una delusione all’altra. Finché è arrivato Donald Trump e si è capito che il numero di telefono dell’Europa non è presso la sede della Commissione Europea ma a Berlino. Dopo avere ricevuto con tutti gli onori Theresa May primo ministro di quella che ora molti sul continente vorrebbero chiamare la perfida Albione ecco che il secondo atto di cortesia del neo presidente americano va all’Europa, quella che conta, la Signora Merkel.

The Donald ha chiamato al telefono Berlino e si è presentato. Viva la sincerità, i veli dell’ipocrisia cadono e si chiamano le cose con il loro nome. Vi è una sola Europa che conta ed è la Germania. Su questo concordano tutti anche se a Bruxelles nessuno lo dice. Troppo è l’imbarazzo nel dover ammettere che l’Europa degli uguali adesso è diventata l’Europa del più forte. L’8,9% del pil tedesco sono circa 310 miliardi di surplus nell’export e fa la differenza. Trump, da uomo d’affari misura il mondo in numeri e dà alla Germania il ruolo che le spetta. Il problema non è quindi in America ma in Europa. L’Unione europea riconosce a Berlino il diritto di porre i propri interessi nazionali avanti a tutto e di chiamarli interessi d’Europa. Molti ne traggono vantaggio perché fan parte della cintura produttiva e commerciale del gigante tedesco.

Cosa farebbe per esempio la Slovacchia, che ha un interscambio con Berlino intorno ai 24 miliardi, se le commesse ai fornitori locali dell’industria automobilistica tedesca dall’oggi al domani venissero meno? E la Repubblica Ceca con la Skoda in mano a Volkswagen, e i Paesi baltici, come tutto l’Est europeo, diventati una costola dell’impero industriale tedesco? All’Est vogliono crescere e sanno che il motore del loro benessere è in Germania. Il Nord Europa ha una sua identità, gli scandinavi tengono alla loro autonomia e indipendenza, hanno bilanci in ordine ma vivono anche loro di luce riflessa, non si può stare in Europa senza venire a patti con la forza economica più grande del continente.

Lo sa bene la Gran Bretagna che per liberarsi dall’abbraccio ritenuto mortale per l’orgoglio anglosassone si sono buttati nell’avventura della Brexit. Restano il Sud e l’Ovest. La progressione economica tedesca trova qui il suo inciampo. Si sperava che la moneta unica avrebbe portato ad una convergenza delle economie e quindi al superamento progressivo delle differenze strutturali. Non è accaduto. Si è giunti ad una accentuazione delle divergenze al punto che secondo i recenti dati Eurostat la crescita maggiore è quella di Romania (1,5% sul trimestre), Ungheria (1%), Repubblica Ceca, Polonia e Slovacchia (queste tre allo 0,9%).

La Spagna ha compiuto il suo risanamento finanziario e adesso inizia a crescere mentre l’Italia resta al palo. La Francia ha anch’essa problemi di deficit e di sviluppo ma Parigi dispone dei cosiddetti campioni nazionali e si cautela con politiche espansionistiche di consolidamento. In Italia negli ultimi dieci anni ha fatto acquisizioni per 52 miliardi contro 7,2 miliardi di investimenti italiani in terra gallica. L’idea non confessata è di spartirsi lo stivale: ai tedeschi la manifattura industriale e ai francesi la finanza e il made in Italy. L’Est europeo è sempre stato funzionale agli interessi tedeschi, l’Italia no. La novità è che lo sta diventando. Per i francesi il bottino italiano è indispensabile per fare massa critica e tener botta all’egemonia tedesca. Così la crisi italiana peggiora e il Paese diventa sempre più ricattabile. Un equivoco dal quale quanto prima si dovrà uscire.

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