Pd unito, Quirinale
e mercati in pressing

Il Pd ha ritrovato l’unità sulla linea di Matteo Renzi ma il contesto in cui i democratici, come tutti gli altri, si devono muovere si è ingarbugliato ancor di più. Lunedì Sergio Mattarella proverà a mettere i partiti con le spalle al muro costringendoli a mettere le carte in tavola, ma neanche lui potrà annullare i veti reciproci che hanno bloccato fin qui le trattative per il governo della nuova legislatura e condotto all’attuale stallo. In realtà ogni forza politica è rimasta sola con se stessa, esattamente come il Partito democratico che ieri ha unanimemente detto «no» sia al dialogo con i Cinque Stelle che a quello con la Lega e l’intero centrodestra (e l’aggiunta non è casuale). Matteo Renzi ha confermato che la sua «presa» sugli organismi dirigenti, sui gruppi parlamentari e probabilmente sulla base dei tesserati è ancora forte, e tutti i capi corrente che avevano minacciato una drammatica «conta» interna che indebolisse l’ex segretario, ancora una volta hanno dovuto cedere a lui e alla bizzarra situazione in cui il leader che si è dimesso dopo il disastro elettorale è, di fatto, quello che ancora comanda.

Il «reggente» Maurizio Martina, messo in forte imbarazzo dalla recente intervista in cui Renzi di fatto sconfessava le sue aperture al dialogo con il M5S, ha riavuto la fiducia del partito fino all’assemblea ma certo, in quella scomoda posizione, se prosegue nel suo lavoro lo fa per un intemerato spirito di servizio e per cercare di mantenere unito un partito che rischia ogni volta di frantumarsi.

In ogni caso, la linea è chiarita: il Pd è disponibile solo ad un coinvolgimento intorno alle riforme istituzionali da fare per sanare la situazione in cui la Repubblica si trova, ma per il resto sceglie l’opposizione. E qui la posizione del Nazareno sarà subito messa alla prova quando lunedì Mattarella prospetterà la soluzione ponte, di tregua, di decantazione, chiamatela come volete, che metta in piedi un governo «tecnico» con il compito di fare alcune, poche cose e poi porti gli italiani di nuovo alle urne, probabilmente dopo la prossima manovra di Bilancio, quindi nel tardo autunno. È un’ipotesi cui potrebbero aderire sia i democratici come Berlusconi, ma non i Cinque Stelle ormai lanciati nel reclamare il voto immediato, anche in piena estate, pur di chiudere questo loro sfortunatissimo round di trattative che li ha allontanati da Palazzo Chigi e probabilmente sfibrati elettoralmente.

Ma all’ipotesi di un voto immediato Mattarella con ogni probabilità non darà seguito, a maggior ragione dopo le parole del commissario europeo Moscovici che ieri a Bruxelles ha avvertito sui rischi che l’Italia, e con essa l’Unione, corre a causa della perdurante instabilità politica che aggrava il problema dei conti pubblici («sforzi nulli sul deficit»), e della crescita più debole di tutti gli altri partner, tutti elementi che potrebbero «rendere volatili i mercati», cioè scatenare sulla nostra testa una nuova tempesta finanziaria. È chiaro allora che se il Quirinale varerà un governo di tecnici sarà innanzitutto per rassicurare il contesto internazionale sul fatto che c’è una mano sul timone per tutto il tempo necessario, e non per rivotare tra due o tre mesi. Ma quella del governo tecnico tuttavia è un’ipotesi che non piace neanche a Matteo Salvini il quale ora reclama un pre-incarico per provare a riallacciare il dialogo con i Cinque Stelle, pur dopo le offese ricevute da Luigi Di Maio sui «veri motivi» che impedirebbero alla Lega di rompere con Berlusconi. Salvini sa benissimo di non avere i voti sufficienti alla Camera e al Senato e di andare incontro ad una bocciatura parlamentare che darebbe al centrodestra il solo vantaggio di gestire il potere nei sei sette mesi precedenti le elezioni. Questo è il quadro a oggi. Non si escludono sorprese ma nemmeno ulteriori complicazioni.

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