Pd, leader cauto
e incendio giudiziario

Le disgrazie non vengono mai sole. Per di più sopraggiungono di massima impreviste nei tempi e imprevedibili nelle conseguenze. Esattamente quello che si sta rivelando per Renzi l’infortunio elettorale del 4 dicembre scorso. La sfida da lui lanciata sulla riforma costituzionale sembrava un’inutile impuntatura, irragionevole oltre che elusiva rispetto alle molteplici e ben più stringenti emergenze economiche e sociali che attendevano dal governo una risposta urgente. La bocciatura di una riforma che sulla carta avrebbe dovuto avere ben poco a che fare con l’attività di governo si è trasformata invece in una vera e propria slavina che rischia ora di travolgere insieme la sua leadership, il suo partito nonché lo stesso assetto bipolare proprio della tanto auspicata democrazia dell’alternanza, sempre inseguita e mai realizzata.

Il 4 dicembre gli italiani sono stati chiamati a esprimersi su una modifica della Carta costituzionale. Formalmente essi si sono limitati a bocciarla. Di fatto hanno posto le premesse per il ripristino di una Repubblica dei partiti, proporzionalista e consociativa. Con le conseguenze a cascata che ne sono derivate e che puntualmente vengono alla luce.

Renzi si è dimissionato prima da premier, poi da segretario. E non ha perso solo le cariche, ha visto gravemente lesionarsi anche la sua leadership. Di più, il suo ambizioso progetto riformatore ha perso le gambe con cui camminare. Senza maggioritario sono saltati in un colpo solo l’originario piano di costruire un partito a vocazione maggioritaria e l’ipotesi di intestarsi un governo di legislatura.

La disarcionatura dell’inviso segretario unita al ritorno in auge del proporzionale ha dato il via libera alla minoranza interna per un attacco all’arma bianca contro lo sbruffone di Rignano. Il partito architrave del sistema politico ha cominciato a perdere i pezzi e ad evidenziare preoccupanti crepe nel suo gruppo dirigente. Da ultimo, come puntualmente si registra da qualche tempo a questa parte quando la politica soccombe, la parola è passata alla magistratura. Un’inchiesta su un (al momento ancora solo presunto) inquinamento corruttivo su una gara d’appalto miliardaria della Consip ha fatto irruzione di prepotenza nella bagarre politica già in atto nel Pd nonché tra maggioranza ed opposizione. Risultato: si sono radicalizzate le posizioni e si esacerbato lo scontro tra e dentro i partiti.

A questo punto ogni nuovo sospetto o, peggio, accusa lanciati a carico del Giglio magico, già degradato a Giglio nero (si parli di Luca Lotti o direttamente di Matteo Renzi), ogni ulteriore passo della magistratura sugli affari d’oro consumati per accaparrarsi stratosferiche gare d’appalto possono trasformarsi nel cerino che fa esplodere l’incendio. Cinquestelle e Lega non vedono l’ora di festeggiare la morte insieme del governo e della legislatura. I fuoriusciti dal Pd accarezzano l’idea di votare la mozione di sfiducia al ministro Lotti.

I due concorrenti di Renzi alla segreteria dem incrociano le spade; l’uno (Orlando) con l’alleato di governo (Alfano) sulla cruciale riforma penale in cantiere, l’altro (Emiliano) con lo stesso Renzi, sul cui operato di premier ha stilato un giudizio fallimentare («Mille giorni di insuccessi», «rovina per l’Italia»). Prima Gentiloni navigava a vista, ora è addirittura in allarme perché ogni scoglio gli può essere fatale.

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