L'Editoriale
Giovedì 12 Aprile 2018
Partita a scacchi
Governo lontano
Sale la tensione internazionale alle porte di casa nostra ma la prospettiva di mettere in piedi un governo in Italia è ancora piuttosto lontana: di più, mentre il confronto tra Usa e Russia nel Mediterraneo viene drammatizzato, non è ancora chiaro quale sarà il nostro orientamento in politica estera. Elementi che sicuramente preoccupano Sergio Mattarella alle prese con la richiesta dei partiti di avere ancora tempo per poter arrivare a trattative più concrete. C’è chi, come il centrodestra e la Lega, aspetta l’esito delle elezioni regionali (soprattutto in Friuli), e chi come il Pd guarda al 21 del mese per tenere un’assemblea nazionale che sciolga i nodi del dopo Renzi e soprattutto della sconfitta elettorale.
Il capo dello Stato è disposto, come detto o fatto filtrare, a concedere il tempo necessario ai partiti ma chiarendo che non si tratta di un tempo infinito: il Paese non può aspettare mesi, per mille ragioni noi a differenza della Germania non possiamo permettercelo. È per questo che il nuovo giro di consultazioni al Quirinale parte oggi all’insegna del nervosismo, e forse non a caso è stata invertita – assai irritualmente – l’agenda dei colloqui: Mattarella infatti riceverà prima le delegazioni dei partiti, e poi i «saggi» delle istituzioni, ossia il presidente emerito Napolitano e i due presidenti del Senato e della Camera. Questo secondo molti fa intendere che si starebbe pensando ad un incarico esplorativo da affidare o alla Casellati o a Fico per cercare di capire quali siano le vere intenzioni dei partiti. Le quali, a guardarle da fuori, sono piuttosto bloccate.
Di Maio insiste per avere lui l’incarico di formare il governo («ho ricevuto undici milioni di voti, perché dovrei fare un passo indietro?») e perché Salvini si stacchi da Forza Italia, e forse dalla stessa Meloni. Però il leader M5S ha visto nelle ultime ore spuntarsi le armi che aveva a disposizione: da una parte non può credibilmente minacciare di rivolgersi al Pd perché tra i democratici il fronte «trattativista» non riesce a superare la contrarietà dei renziani a qualunque forma di dialogo con i Cinque Stelle; dall’altra non può spingere per elezioni anticipate o anticipatissime perché quella strada è severamente sbarrata da Mattarella il quale ha fatto sapere a più riprese che riterrebbe un trauma istituzionale troppo grave rimandare gli italiani a votare dopo pochi mesi dalle ultime elezioni politiche regolari.
Così stando le cose, Di Maio può sì insistere perché Berlusconi venga lasciato nell’angolo dall’alleato leghista, ma non è detto che Salvini sia disposto a rompere l’alleanza elettorale con Forza Italia. Il partito azzurro ripete ad ogni passo (l’ultima volta per bocca del presidente del parlamento europeo Antonio Tajani) che non intende dare appoggi esterni ad un governo M5S-Lega: o dentro, e con ministri qualificati, o fuori, senza alternative. E questo per Salvini vuol dire presentarsi alle trattative con i grillini come il capo di un partito del diciassette per cento, non di una coalizione che ha quasi sfiorato il quaranta. C’è una bella differenza.
Come si vede, la situazione è bloccata. È vero però che tra leghisti e pentastellati continua l’intesa per la spartizione delle cariche parlamentari: è stato deciso che a capo della Commissione Speciale della Camera andrà un esponente della Lega dopo che alla presidenza dell’analogo organismo del Senato è stato votato un grillino. Le proteste dei democratici, pur molto corteggiati per un’intesa di governo, non sono state prese in considerazione. Così stando le cose dunque l’ipotesi di un mandato esplorativo si è fatta più concreta. Anche per evitare che la tensione si sovraccarichi sul Quirinale il cui inquilino vuole comunque tenersi le mani libere per prendere una sua iniziativa, qualora la situazione si ingarbugliasse troppo.
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