Pace fatta sul condono
ma il ballo non è finito

Nessuno ha mai pensato che il «contratto di governo» tra Lega e M5S si sarebbe potuto rompere per le divergenze sul decreto fiscale. Per quanto forti fossero – e siano - le differenze e le diffidenze tra Salvini e Di Maio, mai avrebbero potuto sciogliere il collante del potere da gestire insieme da qui a maggio, quando si voterà per le europee. Sarà quello il momento in cui verranno redistribuite le carte sulla base delle percentuali di voti, ma fino ad allora è imperativo arrivare sempre e comunque ad un compromesso. E in questo una mano l’ha data il presidente del Consiglio «esecutore», Giuseppe Conte, che sta seduto su quella poltrona sempre più scomoda non certo per recitare la parte del leader, ma proprio per arrotondare gli angoli e attutire le asprezze.

Conte, per arrivare nel modo più formale possibile al compromesso sul provvedimento che tutti, tranne chi sta al governo, chiama condono, si è impuntato sulla convocazione di un consiglio dei ministri apposito, anche contro il no testardo di Salvini. E in quella sede una tregua è stata siglata: il cdm di ieri all’ora di pranzo ha sancito che il condono resta ma ha stralciato l’articolo del decreto che Di Maio, pur avendolo votato e verbalizzato, ha dichiarato di non aver mai visto: così non ci saranno scudi per chi ha portato soldi all’estero e nemmeno saranno previste cause di non punibilità. Perché poi Di Maio l’altra sera sia andato a «Porta a Porta» minacciando fuoco e fiamme contro il suo stesso governo e contro un decreto che lui come tutti i ministri grillini aveva appena votato, non lo sapremo mai con certezza. È però verosimile che Di Maio volesse non provocare una base contraria ai condoni proprio in coincidenza con la manifestazione del Circo Massimo, e soprattutto che volesse schivare la strumentalizzazione che i suoi avversari avrebbero potuto fare del continuo compromesso con la Lega.

E dunque, pace fatta. Secondo Conte, Di Maio e Salvini sono proprio le liti tra di loro la causa del disastroso andamento dello spread, delle Borse, degli investimenti esteri e dei giudizi negativi delle agenzie di rating. Basta andare d’accordo e tutto sparisce, dicono. Non tanto dunque il contenuto della manovra e la decisione di portare il deficit al triplo di quanto promesso dal precedente governo (dallo 0,8 al 2,4%), quanto le divisioni a palazzo Chigi isterizzano gli investitori. Per sapere se hanno ragione i tre – che ieri si sono fatti fotografare abbracciati per dimostrare appunto che vanno d’amore e d’accordo – non resta che aspettare l’apertura dei mercati di domani mattina. Sarà la prima seduta borsistica dopo che Moody’s ha declassato i nostri titoli fino ad un passo dal livello spazzatura, e alla vigilia della risposta che martedì a mezzogiorno il ministro Tria dovrà dare alla durissima lettera di contestazione inviataci dalla Commissione europea. E, ancora, la reazione arriverà a pochi giorni dal terzo e ultimo rating in arrivo, quello di Standard and Poor’s (che sarà anch’esso negativo). Se i mercati continueranno a vendere «Italia» perché non si fidano, e se lo spread salirà ancora sopra il livello di 340 punti cui è arrivato venerdì, le rassicurazioni del governo italiano si dimostreranno inefficaci e non credibili. Vuota anche la promessa governativa di non avere nel cassetto «un piano B» per l’uscita dell’Italia dall’euro. Se insomma domani si balla ancora in Borsa, Di Maio e Salvini dovranno cambiare la loro «narrazione» per imputare a qualcun altro la responsabilità della turbolenza che ci sta minacciando.

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