L'Editoriale
Lunedì 23 Febbraio 2015
Non è solo questione
di lavoro precario
Quando ero giovane e muovevo i miei primi passi nel sindacato, i «vecchi» sindacalisti forniti di grandi idealità, capacità e di una forte dose di pragmatismo, mi insegnavano a evitare la retorica e le frasi roboanti perché solitamente servono per nascondere la verità delle cose.
Quando sento frasi come «svolta per una generazione» o «atto storico», quando si parla del Jobs act mi corre un brivido per la schiena. Non so se si metterà fuori campo il lavoro precario, poiché sono convinto che non si superano le contraddizioni che sorgono dall’organizzazione del lavoro attraverso decreti e norme. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che sono mezzi sussidiari e non fondamentali. Di fondamentale oggi sono investimenti, innovazione, nuove politiche industriali. Pensare di superare la Germania con dei provvedimenti mi sembra una posizione velleitaria. Né credo che basti il superamento di alcune forme contrattuali per rispondere ai problemi occupazionali di una generazione di giovani e di over 40 che il lavoro hanno perso.
Inoltre avverto in tutto il dire «giornata storica» la mancanza di senso storico; e non si tiene presente che la legge Treu ( 1997) prima, la legge Biagi (2002) poi sono state messe in campo anche con il consenso sindacale non per rendere precario il lavoro ma per dare veste normativa a un fenomeno già in essere, frutto di una profonda metamorfosi che aveva investito il nostro modello produttivo. In una realtà che tendeva a stravolgere i tradizionali confini delle attività lavorative – superando il fordismo, mettendo in discussione un impianto centrato sulla grande e media fabbrica per lasciare spazio a forme più frammentari– era necessario sperimentare nuove forme di tutela. In questo processo non tutto ha funzionato linearmente e sono emerse disfunzioni e contraddizioni. Del resto non possiamo dimenticare che il capitalismo è per sua natura distruttore e innovatore, produttore di cambiamenti continui che le norme non sempre riescono ad imbrigliare o orientare.
La liquidazione delle collaborazioni solo dal 2016, ma con la prospettiva che possano vivere oltre se previste dalla contrattazione aziendale, attenua l’effetto cambiamento. Certamente non si poteva abolire un istituto normativo che oggi riguarda oltre mezzo milione di contratti, collocati in specifici settori ai quali sembra che la prospettiva sia di restare nella situazione attuale o trasformarsi in partita Iva. Deduco questa considerazione dalla dichiarazione dello stesso premier che parla di «200 mila persone che avranno un contratto a tutele crescenti»: evidentemente i numeri citati non consentono molte scappatoie. Dire che si è operato contro il precariato è la manifestazione di una buona intenzione che viene contraddetta dai fatti: così è il mantenimento in essere del lavoro a chiamata, che a mio parere rappresenta una forma di flessibilità prossima alla precarietà. Nulla da eccepire sulla estensione da 5 a 7 mila euro del vaucher per il lavoro occasionale, ma questo non è certo un elemento di stabilizzazione. In pratica sono state abolite solo le associazioni in partecipazione e il job sharing. Ecco perché parlare di abolizione della precarietà è un esercizio retorico che non tiene conto che la precarietà è fatta da una molteplicità di contratti a termine (oltre 2,7 milioni in un trimestre), che il provvedimento riconferma ed estende.
La vera precarietà non è solo in alcune tipologie contrattuali ma nella realtà dell’assenza di lavoro per i giovani, nell’inoccupazione, nelle marginalità, nelle fragilità di molti, nello scoraggiamento di chi non lavora, non studia e tende a ripiegarsi su se stesso. Una politica del mercato del lavoro che non assume come centrale la questione dell’inclusione a partire da chi è più debole è inefficace. Ho il dubbio che il tutto sia stato fatto con l’obiettivo di superare definitivamente l’articolo 18 per i nuovi assunti e togliere gli ultimi paletti di garanzia sui licenziamenti. E resta il fatto che il decreto è stato approvato senza alcuna modifiche, e i pareri delle Commissioni di Camera e Senato non sono stati presi in alcuna considerazione. «Nessuno resterà solo dopo un licenziamento», ha dichiarato il presidente del Consiglio. Deve essere così, e su questo il sindacato deve presentare da subito proposte chiare e non continuare a mugugnare. Quando si toglie una guarentigia come quella del reintegro, e quando a toglierla è il governo e non la contrattazione tra le parti, dovrà essere lo stesso Esecutivo a mettere in campo un sistema di protezione per tutti, di ricollocamento, di politiche attive.
Quello che manca al Jobs act è uno sguardo al futuro. Recenti ricerche ci dicono che in Italia il 55% dei lavori è automatizzabile e che il nostro Paese è il secondo compratore di robot industriali dopo la Germania, e che l’acquisto tenderà ad aumentare. Questo significa che non ci sarà un lavoro per tutti. Il mutamento sarà radicale. E se la politica e soprattutto il sindacato non inizieranno a porsi il problema da subito, il rischio di precipitare nella disoccupazione di massa è incombente. Il sindacato è stato tenuto fuori dalla partita Jobs act , si è presentato diviso e senza proposte alternative, ma ora ha la possibilità di un riscatto di ruolo e proposta. Deve avere il coraggio di innovarsi e trovare la strada per l’unità possibile, per ricostruire non solo diritti e tutele, ma anche un rinnovato protagonismo delle persone al lavoro.
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