L'Editoriale / Bergamo Città
Lunedì 30 Aprile 2018
Neolaureati in Italia
Stipendi al minimo
Negli ultimi tempi il nostro Paese continua a incassare cattive notizie sul piano delle classifiche internazionali di natura socio-economica. È di pochi giorni fa la notizia che la Spagna ci ha superati a livello di benessere e di reddito complessivo. Ieri un’altra cattiva notizia: l’Italia è il fanalino di coda in Europa nella classifica delle retribuzioni. È un’indagine di Will Towers Watson a confermarlo: la ricerca confronta 15 economie europee e contiene rilevazioni di mercato su retribuzione e benefit relativi a 50 posizioni organizzative in ben 60 Paesi del mondo, non solo europei.
Uno dei problemi principali riguarda soprattutto i primi anni in cui si viene assunti (che è già una bella fortuna vista la percentuale di disoccupazione giovanile in Italia, oltre il 32 per cento, ma al Sud supera ampiamente il 50 per cento). Sui salari ai neolaureati l’Italia, si diceva, è ultima come nel 2014: anzi, vede il divario sulla Spagna, penultima, ampliarsi del 12 per cento, e le posizioni intermedie come l’Olanda sono a meno 47 per cento dall’Italia. Migliora invece di una posizione il dato italiano sulle retribuzioni dei manager intermedi, passati dall’undicesimo al dodicesimo posto con una media che sfiora i 71.000 euro, e superiore rispetto a Francia, Svezia, Finlandia e Spagna. Non è un Paese per giovani insomma. Nonostante lo si dica da decenni, ormai.
Il Regno Unito è il Paese che ha registrato il progresso migliore. Domina, invece, la Svizzera, dove lo stipendio di un neolaureato può aggirarsi anche sugli 80 mila euro lordi. Tra i primi posti, in entrambe le classifiche, figurano anche i tre Paesi scandinavi, oltre alla Germania. L’ennesima dimostrazione che il nostro Paese ha fatto poco per le nuove generazioni e che nonostante il mare di dibattiti e dichiarazioni d’intenti su questo argomento non si è mai messo in atto un piano nazionale per risolvere una delle piaghe socioeconomiche più importanti, che peraltro genera emigrazione e perdita di know-how, di forze fresche e di energie importanti per il futuro di un Paese, legate alla ricerca e all’innovazione.
Ma non è l’unica cattiva notizia sul fronte delle retribuzioni. Se la Sparta del settore privato piange, infatti, l’Atene del settore pubblico non ride. L’Aran (acronimo di Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) ha certificato la perdita progressiva di valore degli stipendi pubblici rispetto all’inflazione, collocando il ritardo all’8,1 per cento. I dati, aggiornati al 20 aprile di quest’anno, indicano, in particolare, che dal 2007/08 al 2015/16, negli anni del blocco del contratto, gli aumenti nel settore privato sono stati pari a 3,6 punti. Nello stesso periodo, invece, i dipendenti del pubblico impiego e della scuola sono stati remunerati sempre con lo stesso stipendio, perdendo gradualmente oltre otto punti. Salvo ritrovarsi come compensazione, a seguito dell’accordo sul rinnovo del contratto definito nelle scorse settimane e ratificato dieci giorni fa, la miseria dello 0,36 per cento di arretrati per il solo 2016. Anche gli incrementi successivi, pari all’1,09 per cento per il 2017 e al 3,48 per cento dal mese di marzo dell’anno in corso, in pagamento probabilmente nel prossimo mese di maggio, non compensano la perdita. Sono tutti temi che dovrebbero essere in agenda del prossimo governo. Sempre che si arrivi a un nuovo governo e non si finisca nella iattura di nuove elezioni.
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