L'Editoriale
Venerdì 23 Settembre 2022
Nelle urne la distanza tra povertà e crescita. Non soltanto in Italia
Il governo ha previsto un bonus di 150 euro per 22 milioni di italiani. Un’inezia a fronte dell’emergenza povertà che avanza. Di rilevante in queste cifre vi è solo la constatazione che coloro che hanno meno di 20mila euro lordi all’anno sono più di un terzo della popolazione italiana.
Il dato non sorprende perché nelle società cosiddette avanzate non tutti arrivano al benessere ed è calcolato che un terzo resti escluso mentre in due terzi gliela fanno. Nel caso italiano di questi due terzi emerge un plotone di 5 milioni di soggetti contribuenti che guadagnano più di 35mila euro lordi all’anno. Sono quelli che si vedono perché pagano le tasse come si evince dalle dichiarazioni dei redditi. Nelle società democratiche di tipo occidentale questi ceti lavorativi creano un plusvalore tale da permettere di assistere gli esclusi. Lo Stato sociale nasce come strumento compensatorio per le classi più deboli. La parola inglese che è passata nel vocabolario italiano corrente è infatti «welfare» che appunto significa benessere e sta per sanità pubblica, scuola gratuita, servizi sociali e tutte quelle garanzie e protezioni che segnano il vivere civile.
Il problema dei nostri tempi è che questa fascia svantaggiata della popolazione è in continuo cambiamento ed è spesso composta di persone e nuclei familiari che prima appartenevano al ceto medio ed ora sono stati declassati oppure erano nel mondo certo e garantito dell’industria e improvvisamente si sono trovati in condizioni di precariato. Un 10% della popolazione attiva opera al di fuori delle tariffe sindacali ed è quindi alla mercè del lavoro occasionale. Tutto questo produce non solo disagio sociale ma vera e propria delusione per non dire rabbia e rancore verso un mondo che per certo distrugge il presente senza dare garanzie per il futuro.
E tuttavia in questa frammentazione del quadro sociale emerge una distinzione ben precisa che attraversa gli Stati e i continenti. La globalizzazione è di per sé un’utopia ovvero un non-luogo. Ed infatti tutti ne parlano ma nessuno sa dov’è. Ed è normale che sia così perché è figlia di internet che a sua volta è un non luogo perché ovunque e in nessun posto. La cosa è sopportabile se si trae guadagno dalla globalizzazione. Ma il perdente si trova esposto alla miseria e all’anonimità del senza dimora. Ovvero di chi ha perso i valori custoditi nel tempo e nella tradizione. È una linea invisibile che passa all’interno dei singoli Paesi e crea una differenza fra chi appartiene ai ceti urbani e ha colto i vantaggi della sfida e chi invece è in periferia e si sente emarginato. In provincia chi ha visto decadere le piccole industrie del territorio che davano il pane alle famiglie si sente defraudato. Ed è qui che la politica diventa il luogo pubblico della frustrazione.
Le grandi città tendono a dare i loro voti alle forze cosiddette progressiste. Un caso da manuale sono I Verdi in Germania che alle elezioni del 2021 sono cresciuti quasi del 6% e quindi nel governo sono seconda forza politica dopo i socialdemocratici. Emmanuel Macron ha potuto diventare presidente della Repubblica francese perché i grandi centri urbani e industrializzati lo hanno sostenuto. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti temono di perdere l’egemonia e si ribellano con la Brexit e il trumpismo. L’Italia è sul guado non vuole vedersi assimilata alla sfera d’influenza tedesca in Europa. Ma sa che i posti di lavoro e quindi la crescita dipendono dall’interconnessione dell’economia italiana con quella tedesca. Il voto italiano è dentro questo conflitto. Una cosa è certa: l’elettore cerca certezze e darà il suo appoggio a chi è in grado di evocarle.
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