L'Editoriale
Sabato 05 Marzo 2016
Morire per portare
a casa il pane
La Sicilia ha il tasso di disoccupazione più alto tra le regioni italiane: 22%, quasi il doppio della media nazionale (11,5). Nemmeno la Sardegna è messa bene, attestandosi al 18,2. Delle due regioni erano originari rispettivamente Salvatore Failla (47 anni, sposato e padre di due ragazze) e Fausto Piano (60 anni, lascia la moglie e tre figli maschi), i due tecnici sequestrati nel luglio scorso in Libia, finiti nelle mani dell’Isis e uccisi nel conflitto a fuoco tra gruppi rivali.
Sarebbero stati liberati venerdì , insieme agli altri due italiani che invece sono salvi dopo otto mesi in balìa dei tagliagole islamisti. La morte di Failla e Piano non è avvolta dall’aura di eroismo che ha connotato la storia di altri nostri connazionali caduti all’estero in teatri di guerra dove, da civili, erano andati a portare soccorso alle vittime o, da militari, a «costruire la pace». Ma quella dei due tecnici è una storia molto italiana, rivelatrice del Paese che siamo. La maggioranza dei nostri soldati morti in Iraq e in Afghanistan erano abitanti del Mezzogiorno, arruolati volontariamente nell’esercito spesso per trovare un’alternativa alla disoccupazione.
Fausto Piano in passato aveva avuto un lavoro discreto: titolare di un’officina meccanica. Gli affari però non giravano come avrebbe voluto, costringendolo a chiudere l’attività e a lasciare la Sardegna, come migliaia di chimici e metalmeccanici dell’isola. Ma appartenendo a quella fascia d’età nella quale si è troppo giovani per la pensione e si è considerati troppo vecchi per un’occupazione stabile, aveva dovuto accettare di alzare l’asticella del rischio. Nel suo curriculum c’erano missioni di lavoro in Stati attraversati da conflitti (Congo e Algeria). Sapeva dei rischi che avrebbe corso in Libia «ma era l’unico modo per lavorare» hanno ricordato gli amici. Così nel luglio 2015 è partito. E un giorno dopo l’arrivo è stato rapito. Con lui doveva esserci anche un figlio: non ha ricevuto in tempo il passaporto e così si è salvato.
Anche Salvatore Failla aveva accettato la missione libica per sfuggire alla disoccupazione. Una scelta dettata dalla necessità, dall’urgenza di portare a casa il pane per la famiglia e per questo, se proprio la si deve etichettare, non meno coraggiosa, se non eroica, di chi lascia la patria mosso da obiettivi ideali come soccorrere le vittime e costruire la pace.
Questa tragica vicenda è poi anche rivelatrice della presenza delle aziende italiane nel mondo, se ce ne fosse ancora bisogno. I quattro tecnici avevano raggiunto la Libia per conto della Bonatti di Parma, specializzata in servizi di ingegneria, costruzione, gestione e manutenzione di impianti per l’industria energetica. Fondata nel 1946, ha seimila dipendenti, la maggioranza all’estero, anche in zone calde come l’Iraq e appunto la Libia.
In gioco non ci sono solo commesse milionarie, ma anche risvolti diplomatici. Con la sua rete di grandi, ma soprattutto piccole e medie imprese, l’Italia del resto è in grado di offrire qualità imprenditoriale di alto livello. Una conferma è arrivata mercoledì scorso ancora dall’Iraq: il governo di Bagdad ha firmato un contratto da 275 milioni di euro con il gruppo cesenate Trevi per la riparazione e la manutenzione della diga di Mosul, a rischio di collasso. La punta di diamante della nostra diplomazia economica è l’Eni, presente proprio in Libia dal 1959: oggi è la più importante società energetica estera nel Paese. Da dove provenivano nel 2010 il 22% del petrolio e il 35% del gas utilizzati in Italia, calati ora al 12% e al 6%. È anche per rilanciare la produzione che il nostro Paese è interessato a pacificare la «Quarta sponda».
L’intreccio fra economia e conflitti è vecchio come il mondo. Con risvolti anche oscuri. Nel 2011 la Francia di Sarkozy spinse per la guerra che poi abbattè il regime di Gheddafi, in seguito al tentativo del raìs di soppiantare il franco francese africano con una nuova valuta panafricana e di rivedere gli accordi petroliferi con Parigi.
Di recente invece l’avvocato Robert Kennedy junior, nipote dell’ex presidente degli Stati Uniti, ha rivelato sulla rivista «Politico» un retroscena del conflitto in Siria. La radice sarebbe stato il rifiuto del presidente siriano Assad al passaggio di un gasdotto dal Qatar (alleato di Washington) verso l’Europa. Avrebbe infatti danneggiato la Russia, alleato di Damasco e il più grande fornitore di gas naturale per il vecchio continente. Così va il mondo.
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