Migranti, Dublino
e fattore paura

La soluzione per l’immigrazione c’è. Ha un nome impegnativo, «sistema europeo comune di asilo» ed è un processo previsto dallo stesso Regolamento di Dublino, ma non si dice perché paga di più l’uso disinvolto del «fattore paura». Il richiamo alla percezione della paura ostacola il consenso verso l’Unione e gonfia le narrazioni delle identità in pericolo, sbaragliando l’idea stessa di spazio europeo. L’Europa ha deciso di non essere se stessa, sballottata tra spinte nazionalistiche e globalizzazione dei problemi. Il processo di Dublino diventa così non riformabile, perché non si tratta più di aggiustare qui e là qualcosa.

L’unica soluzione è cambiare, eliminando il criterio del Paese di primo accesso e aumentando le possibilità per chi richiede asilo di far valere i suoi legami con un particolare Stato dell’Unione, dove per esempio ha già degli affetti. In mancanza, si può stabilire un meccanismo automatico e obbligatorio di distribuzione dei richiedenti asilo in tutti gli Stati membri con assegnazioni vincolanti da parte di Bruxelles. Ma ciò comporta la fine delle legislazioni nazionali sull’ammissibilità delle richieste. Il consenso sull’asilo europeo dirà molto sullo stato dell’Unione, sulla sua solidità e sulla volontà politica di governance di un processo che non si può più esporre ai venti degli egoismi delle piccole patrie in lotta tra loro per la difesa della propria identità. È lo stesso Regolamento di Dublino che prevede all’art. 2 «una politica comune nel settore dell’asilo», come «elemento fondamentale dell’Unione Europea».

Il Consiglio europeo di Tampere in Filandia, nel 1999, aveva discusso una riforma del Regolamento che metteva in soffitta Dublino e le sue sfilacciate procedure, in nome della ricerca di uno status uniforme valido per tutta l’Europa. Oggi invece la stessa domanda di asilo può essere accolta sicuramente in un Paese dell’Unione e respinta altrettanto sicuramente in un altro. La Slovenia dice no a richieste di siriani e afghani - che in Italia verrebbero accolte al cento per cento -, a causa del criterio di «zona sicura». In pratica un profugo di Aleppo sotto bombardamento non ha diritto a chiedere asilo perché potrebbe andare ad abitare nel quartiere sicuro di Damasco dove risiede Assad. Il criterio di «zona sicura» non è escluso da Dublino, ma alcuni Paesi lo hanno introdotto per evitare di accogliere profughi. Lo stesso Regolamento auspicava all’art. 7 di raggiungere entro il 2012 l’obiettivo dell’asilo comune europeo, con l’armonizzazione delle legislazioni nazionali.

Ma qui siano al paradosso, perché da una parte Dublino invoca un cambio totale di passo, dall’altra mantiene le regole sulla babele giuridica. Così è Dublino il maggior ostacolo all’asilo unico. A tutti va bene perché ne possono invocare la riforma ben sapendo che essa sarà impossibile e al medesimo tempo lucrare consenso sulla paura percepita. L’ipotesi degli hotspot nei Paesi dei migranti piace a tutti perché va esattamente in questa direzione.Dublino resta, come restano le infinite discussioni sulla sua riforma, ma intanto blocchiamo ogni arrivo. La logica è quella del muro, più o meno spregiudicata, perché alla fine non c’è molta differenza tra Orban, Salvini o Macron. La linea dura, al netto delle indignazioni, ha un ampio consenso e il modello è lo schema del «no way» australiano, solo un po’ più morbido, «good practice» che sta entrando nell’agenda dell’Unione come soluzione alla questione migratoria e polverizzerà l’idea di Europa in una via lattea di stelle sovraniste. Ma senza che lo si dica con chiarezza.

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