L'Editoriale
Lunedì 11 Dicembre 2017
Matteo Renzi
dopo il flop al referendum
«Centro di gravità permanente» voleva essere Renzi e centro di gravità permanente è riuscito ad essere in tutti questi anni. Nel bene e nel male. Nella buona e nella cattiva sorte. Dal 2013 al 2016 la sua è stata una galoppata trionfante. Ha rottamato il rottamabile nel suo partito. Ha imposto agli altri partiti la sua agenda politica, tanto da minacciarne alcuni (Forza Italia e centristi) di invadere il loro territorio di caccia elettorale e di fare concorrenza ad altri (Cinquestelle).
Gli è riuscito nei primi tempi di indossare nello stesso tempo i panni dell’uomo di governo e del giustiziere della casta, del segretario di partito e del populista antipartito. L’intero sistema politico ruotava attorno a lui. L’opinione pubblica rimaneva affascinata dal fare sbrigativo di questo giovane finalmente libero dai riti inconcludenti dei politici d’antan. Poi è incappato in quella distorsione che colpisce un po’ tutti gli uomini di potere: si inebriano del loro successo. Ha compiuto lo sbaglio di scommettere tutto sulla riforma costituzionale. Uno contro tutti. Troppo, anche per un politico - non era più il caso suo - al vertice della popolarità.
È opinione corrente che il politico di razza si riconosca al momento della sconfitta. Adottando questo criterio, non si può dire che Renzi appartenga a questa schiera. Almeno col senno di poi, possiamo dire che la sua reazione alla clamorosa sconfitta subita al referendum di un anno fa non è stata, per usare un eufemismo, felice. Invece che attrattivo, s’è fatto repulsivo. Ha suscitato un rigetto nel suo partito, sfociato presto in una scissione, e non solo da parte dei rottamati. Ha subito di seguito l’abbandono anche dei forzisti di Alfano che non avevano esitato a lasciare la casa madre pur di seguirlo. Con ciò, non è che abbia smesso di essere il centro di gravità permanente della scena politica.
C’è stato però un netto cambio di segno. Prima attirava simpatie e consensi, ora critiche e rifiuti. La sinistra si è saldata nel nome di «via Renzi dal Pd». La destra di Salvini e della Meloni ha alzato le barricate contro di lui al punto che ha posto la pregiudiziale a qualsiasi futuro dialogo col segretario dem e a qualsiasi collaborazione addirittura con chiunque si sia macchiato della colpa di aver collaborato con lui.
Non parliamo dei Cinquestelle che hanno fatto della sua sconfitta l’alfa e l’omega della loro azione politica. C’è da chiedersi, a questo punto, quale sia la ragione dell’effetto autopunitivo del protagonismo renziano. Ci può venire in soccorso Battiato. Il celebre cantautore siciliano ha chiarito bene a cosa possa servire un centro di gravità permanente: «che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose, sulla gente».
Proprio quello che Renzi si è guardato bene dal fare. Aveva puntato tutto sulla scommessa di far «cambiare verso» all’Italia con una democrazia dell’alternanza, governi di legislatura, una società aperta alla competizione, all’innovazione, al merito, un welfare di sostegno al lavoratore e non al posto di lavoro. La sconfitta referendaria gli ha «fatto cambiare idea sulle cose e sulla gente». Passaggio al proporzionale, a governi di coalizione e incertezza sulla strada delle riforme. Non ci sono (a parte Andreotti e prima di lui Talleyrand) politici per tutte le stagioni e Renzi ne paga le conseguenze.
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