L'Editoriale
Lunedì 21 Dicembre 2015
Maternità surrogata
confusione sui diritti
Stop agli «uteri in affitto»: l’ha detto il Parlamento europeo nell’annuale rapporto sui diritti umani e la democrazia nel mondo. Il testo approvato «condanna la pratica della maternità surrogata, che mina - si legge al paragrafo 114 - la dignità umana della donna, visto che il suo corpo e le sue funzioni riproduttive sono usate come una merce; considera che la pratica della maternità surrogata, che implica lo sfruttamento riproduttivo e l’uso del corpo umano per profitti finanziari o di altro tipo, in particolare il caso delle donne vulnerabili nei Paesi in via di sviluppo, debba esser vietato e trattato come questione di urgenza negli strumenti per i diritti umani». Bene il fatto che l’Europa si sia pronunciata su un business globale che innesca una serie di interessi per cui il corpo delle donne diventa oggetto di mercato. Finalmente la donna in gravidanza non dovrebbe più essere considerata come un «sistema uterino di approvvigionamento» per coppie danarose che commissionano un bambino.
Almeno la dignità della donna è salva. Si dice poi che lo sfruttamento delle donne in Paesi come l’India, il Pakistan, la Thailandia, l’Ucraina andrebbe vietato. Ma cosa può fare concretamente l’Europa per contrastare questa violazione dei diritti umani non viene detto. Anche perché, in gergo commerciale, se in quei Paesi c’è l’offerta, da noi c’è la domanda che la genera. Forse bisognerà muoversi prima in casa, rieducando le giovani generazioni al fatto che non è possibile indicare il desiderio di un figlio come un diritto assoluto, al fine poi di gestire operazioni che sono disumane.
Quest’opera educativa che dovrebbe essere intrapresa in larga scala va però a cozzare contro un’altra indicazione anch’essa presente nel paragrafo 114 che consente «l’accesso a istituti legali possibilmente attraverso unioni registrate o matrimoni per persone dello stesso sesso» con la connessa possibilità in futuro di adottare bambini, ottenuti con la fecondazione eterologa. Quindi alimentando ancora la richiesta di madri surrogate.
La questione dell’utero in affitto è inevitabilmente legata al riconoscimento del matrimonio fra persone dello stesso sesso o comunque a unioni civili che garantiscano i medesimi diritti delle persone sposate. Se sul tavolo c’è l’una c’è anche l’altra. Tanto è vero che da noi, i sostenitori del decreto di legge Cirinnà, non potendo più nascondere che l’approvazione di quel testo conduce anche all’utero in affitto, cercano di presentarlo positivamente. Prima di tutto cambiandogli il nome: da utero in affitto viene ribattezzato «gestazione per altri», anzi «gpa». E poi dipingendo l’utero in affitto come un gesto di generosità verso chi non può avere figli, con interviste e foto di gruppo di persone sorridenti e felici, dietro le quali compaiono paesaggi rassicuranti: nulla a che vedere con sfondi da periferia di New Delhi o da campagna ucraina.
Ma come è possibile che una tecnica degradante e disumana lo sia solo in India e non in Italia? Come è possibile rivendicare un «diritto al figlio» calpestando però il diritto alla vita – e a una vita dignitosa – per altre donne e altri figli? Una donna che presta il suo ventre per far crescere un bambino poi dato ad altri, non sta facendo un gesto d’amore, né verso se stessa, né verso il bambino. Si presta a una compravendita di esseri umani, rinnegando il suo essere madre.
La nostra legge 40 vieta l’utero in affitto e punisce chi «commercializza gameti o embrioni o la surrogazione di maternità» ma chi vuol avere un figlio a tutti i costi lo può «assemblare» all’estero per poi ritornare in Italia cercando di far registrare il piccolo a proprio nome. Questo raggiro è reso possibile da sentenze, come quella del Tribunale di Milano dello scorso 24 marzo, che ammette anche una «genitorialità non di derivazione biologica». A scapito ancora una volta del diritto di un bambino di nascere da un atto d’amore tra una donna e un uomo che un giorno potrà chiamare mamma e papà senza alcuna incertezza.
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