Toghe, va fermata
la deriva spartitoria

«L’indipendenza della magistratura, meta ideale in ogni tempo, è stata nel corso dei secoli difficilmente e limitatamente conseguita, per la costante tendenza dei governi e delle forze politiche dominanti a tener sotto il proprio controllo l’esercizio della funzione giurisdizionale, non tanto per tutelarne l’efficienza e obiettività, quanto per poterne far uso come strumento di potere», così scriveva quarant’anni fa Guido Astuti. In merito al ruvido giudizio dello storico basta rivolgere la mente al mitico Corrado Carnevale, il giudice della Cassazione che cancellava con un «tratto di sentenza» anni di faticoso e pericoloso lavoro dei suoi colleghi.

Analogamente, nella memoria collettiva, l’espressione «porto delle nebbie» rinvia alla permeabilità politica della Procura della Repubblica di Roma negli anni ‘70/’80 allorché si lamentarono casi clamorosi di insabbiamenti delle indagini dei magistrati più tenaci e meno inclini a farsi addomesticare dal potere politico. Questi antecedenti rappresentano, sul piano storico, lo sfondo entro il quale guardare le recenti vicende che hanno coinvolto componenti del Csm, con pesanti ricadute sull’organo costituzionalmente deputato a garantire l’indipendenza della magistratura. Le indagini della Procura di Perugia stanno facendo emergere un autentico verminaio.

L’idea che una «sporca (mezza) dozzina» di magistrati e politici in combutta tra loro tentava di orientare carriere e nomine nell’ambito della giustizia lascia attoniti. Ancor più se si tiene conto che alcuni di essi sono (o sono stati) componenti del Consiglio superiore della magistratura, un organismo che, in base alla Costituzione, è chiamato a garantire l’autonomia della magistratura. Il solo sospetto di trattative, favori, accordi, rischia di minare irrimediabilmente non soltanto il prestigio del Csm ma soprattutto la credibilità della magistratura nel suo insieme. Con danni incalcolabili per la democrazia.

Il presidente Mattarella – seguendo sapientemente il tracciato della massima correttezza istituzionale – ha evitato di arrivare allo scioglimento del Consiglio (provvedimento di carattere straordinario che avrebbe avuto il sapore di una resa dei conti), indicendo nuove elezioni per i posti vacanti e indicando correttamente nel Parlamento il soggetto tenuto a rivedere le norme riguardanti il Csm. Il chiaro segnale del Colle non può e non deve essere eluso: la deriva spartitoria all’interno del Consiglio va fermata prima che sia troppo tardi. Collateralmente la magistratura deve trovare il coraggio di attuare un radicale ripensamento del ruolo dell’Associazione di categoria che non può continuare a essere divisa in correnti organizzate, ognuna delle quali fa riferimento anche indirettamente a forze politiche. Ciò, oltre che per una questione di dignità istituzionale, anche per un problema di carattere «funzionale»: finché un solo magistrato cercherà «sponda» in questo o quel partito, l’autonomia della giurisdizione sarà soltanto un vessillo, non una realtà.

Come acutamente osservava Astuti, il potere politico (in particolare i governi) ha sempre ritenuto comodo cercare di tenere sotto controllo la magistratura, la quale deve al contrario essere libera di decidere e giudicare esclusivamente in base alla legge. Se si incrinano questi principi, vacilla la democrazia. Sotto questo profilo i tentativi di autodifesa dei politici implicati nella vicenda sono deboli nella sostanza e sbagliati nel metodo. Luca Lotti – ex ministro, capocorrente nel suo partito, «uomo navigato» – continua a dire di non aver commesso reati, facendo finta di non capire che il punto è un altro: un uomo politico non deve mai parlare (nemmeno per un attimo) con magistrati di nomine e carriere. Peggio ancora se queste questioni si intrecciano con la sua personale situazione di indagato. Lo capirebbe anche un bambino che si parla di etica non di reati. Ma troppi politici (di ogni schieramento) sembrano assomigliare ai personaggi di Lewis Carrol: ignari di se stessi.

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