L'Editoriale / Bergamo Città
Lunedì 03 Luglio 2017
Ma Renzi non scordi
il percorso di Kohl
Quando Helmut Kohl perse le elezioni nel 1998 Matteo Renzi aveva 23 anni. La politica ha il potere di mettere a confronto figure tra loro distanti. Cos’ha in comune il vecchio cancelliere tedesco con il giovane politico italiano? Nulla. Li unisce tuttavia una qualifica: sono entrambi ex. L’italiano è fresco della sconfitta al referendum del 4 dicembre. Da allora è un ex presidente del Consiglio. Ma non demorde e soprattutto fatica a riconoscere il valore politico di una valutazione pubblica che porti il partito a capire gli errori fatti.
Il cancelliere Kohl è primatista nella permanenza al potere ed ha guidato la politica tedesca per 16 anni ininterrotti. Poi è stato sommerso dai no al suo governo e successivamente dagli scandali per i finanziamenti illeciti al suo partito. Si è trovato di colpo solo e da allora l’ha giurata a tutti. In primis al suo successore Angela Merkel, colpevole di aver preso il potere e di aver lasciato a lui solo la vergogna. Da quel momento è stata una lotta per la sopravvivenza. Era l’uomo della riunificazione tedesca, dell’unione monetaria e dell’euro. Ma sembrava che tutti se ne fossero scordati. C’è voluta la sua morte per far ritornare la memoria a molti. Per la prima volta un politico europeo ha trovato la celebrazione del suo funerale in un’istituzione comunitaria per eccellenza: il Parlamento di Strasburgo. Un onore dovuto. Il giovane Matteo non è andato al funerale. Kohl appartiene ad un’altra era, è vero, ma il suo lascito è di tutti. Forse un ricordo della sua opera di statista avrebbe aiutato i cittadini italiani delusi e smarriti a trovare la strada dei valori sui quali costruire una comunità.
Il Pd è quantomeno in una crisi d’identità e ricollegarsi alla tradizione dell’europeismo di Adenauer, Schumann , De Gasperi e quindi di Helmut Kohl è una sorta di spartiacque contro il risorgere dei nazional-populismi. E poi sul piano personale un politico dall’ego smisurato come Kohl è un punto di partenza per valutare il proprio comportamento in caso di sconfitta. Perché l’ex cancelliere si era adirato? Voleva di fatto un referendum sulla sua persona. Aveva sbagliato, e lo sapeva, ma riteneva che i meriti fossero di molto superiori alle sue debolezze. Così sembra fare l’ex enfant prodige della politica italiana. Ha avuto il merito di avviare il ricambio di una classe politica ormai consunta, di avviare una rottamazione che poteva essere meno offensiva per la dignità personale degli interessati, ma che era condivisa dalla stragrande maggioranza degli italiani. Le elezioni europee del 2014 gli hanno dato il 40%, di fatto un plebiscito e il lasciapassare per una nuova politica di risanamento del Paese.
Invece di mettere mano alle riforme della spesa pubblica e quindi alla riduzione degli sprechi, ad affrontare con mano ferma il male oscuro della corruzione e della criminalità organizzata, di trovare il coraggio di dire al Paese che senza una riduzione del debito pubblico il sistema Paese non ritorna alla competitività. Invece di tutto questo ha cominciato a dare mance, dagli ottanta euro in busta paga ai bonus alle varie categorie nella convinzione che solo così si conquista il favore dell’opinione pubblica. Il 4 dicembre ha detto che non è così. A quel punto dire mi sono sbagliato e poi tentare di ritornare dalla porta di servizio non aiuta. Per i politici così come per i banchieri vale solo un precetto: credibilità. Kohl la perdette quando si rifiutò di rivelare il nome del finanziatore occulto. Per Matteo Renzi la sfida è ancora aperta ma le disgrazie dell’ex cancelliere dicono che il percorso è impervio.
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