Ma di quale giustizia
parliamo in Italia?

Quando parliamo di giustizia in Italia, a quale giustizia ci riferiamo? La domanda non è peregrina, come evidenziato anche dalle cronache più recenti. Martedì scorso la Cassazione ha reso note le motivazioni dell’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nel 2007. Secondo la Suprema Corte, il processo ha avuto «un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o «amnesie» investigative e di colpevoli omissioni di attività di «indagine».

Un giudizio pesante su una vicenda che già aveva esposto l’Italia all’indignazione dei media dell’Inghilterra, il Paese della vittima, e degli Stati Uniti, dove risiede Amanda Knox. Si trattava di osservatori esterni poco avvezzi alla fuga di notizie dalle Procure e alla spettacolarizzazione dei processi, prassi date ormai per scontate nel nostro Stato, dove sui fatti di cronaca giudiziaria è abitudine dividersi fra colpevolisti e innocentisti a prescindere.

Tanto poi il tempo cancella tutto. Così le gravi motivazioni della Cassazione hanno avuto un modesto risalto per essere poi subito consegnate alla polvere degli archivi. E invece ripropongono questioni serie che andrebbero sottratte all’oblio. Innanzitutto l’approccio dell’opinione pubblica e dei media alle vicende giudiziarie, che dovrebbe essere improntato alla prudenza non prendendo per oro colato, a meno di evidenze conclamate, le «verità» delle indagini. Le vie della giustizia sono sporcate da gravi errori. È di ieri la notizia dell’assoluzione definitiva di Mirko Eros Felice Turco, 35 anni, di Gela, condannato all’ergastolo per due omicidi sulla base delle accuse di pentiti: la verità è emersa dopo 17 anni, 11 passati in carcere.

Un secondo aspetto riguarda la responsabilità degli errori. «Mi sembra giunto il momento di razionalizzare e coordinare l’attività del pubblico ministero, finora reso praticamente irresponsabile da una visione feticistica dell’azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli della sua attività». Non sono le parole di un pericoloso reazionario che vuole imbavagliare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma di un grande giudice martire, Giovanni Falcone, pronunciate in un convegno nel 1990.

Gli errori, anche quelli gravi, sono parte di ogni attività professionale. Possono essere commessi in buonafede, per sciatteria o distrazione. Ma anche in malafede. Un sospetto che adombra l’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi, avvenuta a Roma nel 2009 mentre il trentenne era nel reparto detenuti dell’ospedale Pertini in custodia cautelare per possesso di droga. Nel 2013 la Corte d’Assise condanna in primo grado sei medici per omicidio colposo e assolve sei persone, tra infermieri e guardie carcerarie. Un anno dopo, la Corte d’Appello di Roma assolve tutti gli imputati. È di giovedì scorso la notizia di un’inchiesta bis che vede indagato un maresciallo dei carabinieri per falsa testimonianza: la deposizione al processo d’appello contro medici e agenti della polizia penitenziaria dell’ex vicecomandante della stazione di Tor Sapienza - dove Cucchi fu portato la notte dell’arresto - è in conflitto con i fatti accertati dai pm.

Altri due militari rischiano l’iscrizione nel registro degli indagati per lesioni colpose (le percosse inflitte al giovane). In questo caso sotto accusa non è l’operato dei pubblici ministeri, ma di altri uomini dello Stato. Gli inciampi frapposti alle indagini quando sono coinvolte forze dell’ordine sono un vulnus alla qualità della nostra democrazia. Quando parliamo di giustizia in Italia, a quale giustizia ci riferiamo?

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