L'Editoriale
Lunedì 19 Ottobre 2015
Lotta di classe
e lotta di tasse
Dove comincia la lotta di classe e inizia la lotta di tasse? A sinistra il dibattito è aperto. Il premier Matteo Renzi difende la defiscalizzazione di Imu e Tasi affermando che «abbassare le tasse non è di destra né di sinistra: è giusto». La minoranza dem non ci sta e annuncia una controriforma fiscale. Pier Luigi Bersani aggiunge che un’affermazione così è come dire «viva la mamma». Il problema è che in realtà la povera mamma fiscale è stata bistrattata a destra come a sinistra. In questo senso l’aumento della pressione è una delle poche cose autenticamente bipartisan della politica italiana.
In teoria non dovrebbe essere così. Il fisco è anche una parte importante delle ideologie politiche, come avviene in America. Da che mondo e mondo la destra tende ad abbassarle in nome del motto «meno Stato più mercato», anche ai più ricchi, in modo da creare capitale e dunque investimenti e dunque sviluppo. La sinistra invece tende ad alzarle, ma in maniera progressiva, al fine di creare una maggiore equità sociale e stimolare la domanda interna. Del resto la progressione delle aliquote, come ha ricordato lo stesso Bersani, è sancito dall’articolo 53 della Costituzione. Detto per inciso, la pressione fiscale negli Stati Uniti è al 33 per cento.
In realtà, se andiamo a vedere i governi che si sono alternati nella Seconda Repubblica, la pressione fiscale è stata aumentata da tutti, destra e sinistra. O quanto meno non è stata abbassata da nessuno. Era del 41,6 per cento al tempo del governo Prodi del 1996, schizzò al 43,7 per cento l’anno successivo, con la maxitassa per l’Europa. Con il dem D’Alema le cose non cambiarono di molto e rimasero intorno al 42,3 per cento. Amato le abbassò leggermente, passando al 41,6 per cento. La percentuale venne mantenuta dal liberale Berlusconi, che governò dal 2001 al 2005 al grido di «meno tasse per tutti». Il 2006 è l’anno del secondo governo Prodi, che naturalmente provvide ad alzare la pressione fiscale al 42 per cento e successivamente al 43,1. Quando il compianto ministro Tommaso Padoa Schioppa fissò la massima aliquota al 43 per cento per i redditi oltre i 75 mila euro e qualcuno ebbe il coraggio di ricordare che in campagna elettorale avevano promesso di non alzarle commentò: «Non capisco le lamentele dei ricchi». Ricchi? Semmai la classe media, che a furia di tasse, tributi e balzelli ormai non esiste più. I ricchi in realtà non venivano sfiorati. Il problema è che l’aliquota massima del 43 per cento oltre quel reddito è uguale per tutti, dal ceto medio a chi guadagna un milione di euro l’anno. Come equità fiscale non è male. Soprattutto in un Paese che non ha patrimoniali (come la Francia o l’Inghilterra) e vanta la più alta evasione fiscale d’Europa. Il problema vero sulle tasse, che da Renzi in realtà non è stato sfiorato, è non tanto quello di abbassare le tasse, ma come abbassarle, a chi, a quanti. E soprattutto come farle pagare a chi le evade.
Quando tornò Berlusconi, nel 2008, qualcuno si aspettava che mettesse finalmente in pratica il piano «meno tasse per tutti» che sventolava sui posteroni affissi nelle città di mezza Italia. In realtà l’evasione rimase la stessa dell’era Prodi. Anche perché la manovra varata nel 2011 prevedeva aumenti fiscali per gli anni successivi. Dopo la tempesta valutaria del 2011, quando rischiammo di finire come la Grecia, arrivò il «tecnico» Mario Monti (dove per «tecnico» si può tranquillamente intendere per «premier che alzerà le tasse» come insegnano tutti i governi tecnici). E fu subito record: la pressione fiscale arrivò a toccare il 44,7 per cento. Casomai ci fosse qualcuno che pensasse che abbassare le tasse è di centro.
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