Lotta all’Isis
fermando i finanziatori

Le stragi in Somalia, Nigeria e in Egitto, oltre alla nuova offensiva dell’Isis contro la città siriana di Palmira, sono un campanello d’allarme. Crudele, feroce. Ma utile per tutti coloro, e non sono pochi, che ancora sottovalutano la questione del terrorismo islamista o che credono, e vogliono far credere, che sia possibile risolverlo con una stanca campagna di bombardamenti o qualche guerra improvvisata in malafede.

Possibile che nessuno si chieda, per restare al caso più clamoroso, dove prenda le armi, i mezzi e gli uomini l’Isis, che da due anni e mezzo combatte, almeno in teoria, contro l’esercito siriano e quello russo, i pasdaran iraniani, i miliziani libanesi di Hezbollah e una coalizione guidata da Usa e Arabia Saudita che comprende altri 65 Paesi? Davvero pensiamo che Al Baghdadi e i fanatici del jihad facciano tutto da soli, con il volontariato e lo spirito di sacrificio?

In questi giorni insanguinati, e dentro questa preoccupazione globale, il caso forse più inquietante è quello del Cairo, dove la Cattedrale copta di San Marco è stata colpita da un attentato che ha fatto almeno 25 morti e decine di feriti. L’Egitto è da sempre uno dei pilastri della stabilità del Medio Oriente. E lo è diventato ancor più negli ultimi anni, da quando una serie di guerre disgraziate (Iraq 2003, Libia 2011, Siria 2011) ha accentuato le tendenze centrifughe della regione, lasciando sul terreno tre soli Stati-nazione: Turchia, Iran e appunto Egitto.

I cristiani copti formano circa il 10% della popolazione egiziana. Sono dunque una minoranza ma, come spesso accade alle minoranze cristiane nelle società musulmane, decisiva. Non a caso copto viene dal greco «aiguptios», poi arabizzato in qubt. Copto insomma è sinonimo di egiziano, perché i copti sono appunto gli egiziani delle origini, dell’epoca (quarto-settimo secolo) in cui il Paese era a maggioranza cristiana. Oltre ad avere una presenza importante nei mestieri e nelle professioni, e quindi anche nella politica, i copti svolgono in Egitto la stessa funzione che era svolta in Iraq dai caldei e dai siri o in Siria dai cristiani cattolici e ortodossi: garantiscono il pluralismo, alla fin fine proteggono l’islam dalle sue tendenze minoritarie e peggiori. Per questo i copti egiziani, che formano la più grande comunità cristiana del Medio Oriente, hanno guardato alle Primavere del 2011 con un certo sospetto: perché l’instabilità, in quella parte del mondo, è il peggior nemico delle minoranze. E per la stessa ragione i copti sono stati colpiti con particolare accanimento, con una cinquantina di attentati e attacchi e decine di morti, nel 2012-2013, cioè nel periodo in cui l’Egitto era sotto il controllo dei Fratelli Musulmani.

Quest’ultimo attentato ci dice che il pericolo è sempre vivo, a dispetto delle repressioni dell’ex generale e ora presidente Al Sisi, del ruolo assunto dai militari, del bando imposto ai Fratelli Musulmani e, come dicevamo prima, della presunta guerra al terrorismo islamico che diciamo di combattere. Una guerra che fu proclamata quindici anni fa, dopo gli attentati delle Torri Gemelle, e che non ha dato risultati apprezzabili. Dal 2000 a oggi le vittime per atti di terrorismo, nel mondo, sono aumentate di nove volte, con un’escalation diventata negli ultimi anni drammatica: dai 10 mila morti del 2011 siamo infatti arrivati ai 33 mila del 2015.

Per disarmare il terrorismo islamico, ormai è più che chiaro, bisogna fermare chi lo finanzia e lo protegge. Cosa che le alleanze internazionali e i rapporti d’affari non permettono. Ma abbiamo anche visto a che prezzo: un pezzo di mondo in fiamme, la paura della violenza in Europa, flussi migratori fuori controllo, settarismo, guerre. Parlano chiaro l’Iraq, la Libia, la Siria.

Destabilizzare l’Egitto, che ha il Sinai affacciato su Israele e Arabia Saudita e l’Alto Nilo che fa da porta all’Africa sub-sahariana, è l’obiettivo che da anni l’islamismo si propone. Vorrebbe dire collegare i peggiori conflitti del Medio Oriente con i traumi più gravi dell’Africa. Il tutto alle porte dell’Europa. Ci pensino un po’ su tutti coloro che ancora credono che tra esportare la democrazia e diffondere fast-food e telefonini non ci sia differenza.

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