Lotta al terrorismo
In Libia la fase due

La strage di Barcellona ha reso ancora più urgente l’iniziativa diplomatica e di Intelligence dell’Italia nella sponda sud del Mediterraneo, che intende contenere la pericolosa instabilità della Libia, un crocevia del terrorismo islamista. Qualche risultato c’è, considerando da un lato il carattere non conflittuale delle nostre relazioni con il mondo arabo e dall’altro la circostanza che il governo Gentiloni non può più contare sul sostegno dell’America di Obama e che in questa sua opera di tessitura è rimasto solo.

Il primo obiettivo era, ed è, quello di fermare l’onda migratoria e fare della Libia nel Mediterraneo quel che la Turchia è in relazione al blocco della rotta balcanica. Gli sbarchi, anche per la disciplina imposta alle Ong, sono drasticamente calati. Nel mentre è proseguito il sostegno al governo di Al Sarraj che, pur riconosciuto dalla comunità internazionale, ha margini operativi limitati e quasi esclusivamente nel perimetro di Tripoli.A questa architettura, sostenuta dalla riapertura della nostra ambasciata (siamo gli unici fra i Paesi occidentali), mancava la sponda dell’Egitto e il deficit è stato rimediato con la fase 2 del dossier libico. Il ritorno del nostro ambasciatore al Cairo è un passaggio obbligato e all’insegna della realpolitik, in quanto qualsiasi soluzione in Libia passa dal generale Al Sisi, l’autocrate egiziano e grande sponsor di Haftar, il padrone della Cirenaica e avversario del governo di Tripoli, recentemente riabilitato da Macron.

In un contesto molto opaco e dove è più importante ciò che sfugge alla vista, non c’è da farsi troppe illusioni sulla prospettiva di una riconciliazione nazionale e sull’affidabilità del signore della guerra di Tobruk, ma in ogni caso la normalizzazione dei rapporti con il Cairo segna un passo avanti nel tentativo di interloquire con l’anello fin qui mancante. Il nostro ambasciatore era stato ritirato dopo i buchi neri dell’inchiesta sull’assassinio del ricercatore italiano Giulio Regeni, omicidio per il quale sarebbero sospettati pezzi di apparato dei Servizi egiziani, gli stessi che hanno depistato le indagini. L’apparente soluzione della crisi è stata resa possibile dalla promessa di cooperazione giudiziaria giunta dal Cairo, ma servono fatti concreti e l’Italia è chiamata a dare segni visibili di pressione sul regime egiziano, che governa con il pugno di ferro. L’attivismo italiano e l’evoluzione sul campo nella polveriera libica si inseriscono in una mutazione in corso del terrorismo jihadista, che vedrebbe ora i maghrebini ai vertici dell’Isis, una leadership ricoperta fino a ieri dai mediorientali veri e propri.

Gran parte degli analisti concorda sul legame fra le sconfitte dello Stato islamico sul terreno e la ripresa cadenzata degli attacchi terroristici in Europa: ritmi criminali pianificati in modo da colpire quando l’Europa si sente un po’ più al sicuro, non concedendole tregua. In sostanza l’Isis perde e cambia stile comunicativo, ma l’ideologia resiste con rinnovata ferocia e affidata anche allo spontaneismo degli emulatori, parzialmente coordinati con altri gruppi e con la centrale mediorientale. Il Califfato oggi controlla soltanto il 40 per cento dell’area siriano-irachena di cui disponeva a inizio 2015, ma il pericolo maggiore continua a venire dai «foreign fighters» che, pur in sensibile calo, potrebbero rientrare nei luoghi d’origine o spostarsi in altri Paesi per progettare nuove azioni terroristiche. Proprio l’arretramento dell’Isis dal teatro bellico rappresenta una nuova minaccia, perché sta dislocando le varie organizzazioni nello spazio di nessuno fra Maghreb e Africa occidentale, a cavallo dei confini desertici fra Libia, Mali, Niger, Mauritania, Algeria e Ciad. Nel campo d’addestramento dell’Isis di Sabratha, in Tripolitania, negli anni scorsi sono transitati almeno 3 mila jihadisti tunisini e forse altrettanti marocchini, algerini e volontari provenienti dalla regione sahariana.

Il Sahel, dunque, sta diventando il contenitore logistico per riorganizzare le cellule dopo i rovesci subiti in Medio Oriente. Sul controllo di questo «ventre molle», porta d’accesso alla Libia di ogni genere di traffici, ha puntato recentemente il ministro Minniti: l’accordo stipulato con le tribù dell’area per istituire una cintura di sicurezza, qualcosa che assomigli ad un filtro dei passaggi in queste frontiere mobili è parte di una strategia complessiva mirata sul nuovo corso e sui percorsi alternativi del terrorismo Isis.

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