Lo sviluppo, risposta
ai nuovi conflitti

«Se con tutte le risorse che ci ha messo a disposizione la scienza moderna, non siamo ancora capaci di togliere la fame nel mondo, siamo tutti colpevoli». Winston Churchill nel 1958 era già arrivato dove ancora molti oggi fanno fatica. Ciò che muove lo statista britannico, si badi bene, non è l’umanitarismo ma la semplice ragione politica. Lungimirante, perché solo così l’arte del decidere riesce a coniugarsi con l’anelito profondo dell’uomo verso la giustizia.

La fame è l’arma più forte in mano agli estremisti. È un’evidenza che balza agli occhi quando si viene a sapere che Jabhat al Nusra, una derivazione di Al Qaeda in Siria, sui social media mostra gli affiliati intenti a consumare pasti in abbondanza. Lo stesso si dice facciano altre organizzazioni terroristiche. Per chi la fame la vive da disperato, ogni alternativa è buona. Lo dice con un accorato appello la principessa di Giordania Haya, figlia dello scomparso re Hussein e sorella dell’attuale sovrano Abdullah, a sostegno del Programma alimentare mondiale (Wfp) delle Nazioni Unite.

Le correnti migratorie che si abbattono sulle nostre coste con il loro carico umano di disperazione nascono dalla miseria di intere regioni dell’Africa. Sud del Sudan, Somalia, la parte settentrionale della Nigeria, il Niger vivono gli effetti di una carestia che trova probabilmente le sue cause nei mutamenti climatici e si alimenta nelle faide politiche delle fazioni in lotta. Gli aiuti umanitari vengono saccheggiati per rifornire le parti belligeranti con il risultato di lasciare la popolazione senza possibilità di scampo. Fuggire diventa a questo punto l’unico mezzo per sottrarsi a morte certa. Non sono vicende nuove perché anche il passato ha riservato all’umanità simili tragedie . La differenza è che ora sono amplificate dai nuovi mezzi di comunicazione. La parte opulenta del globo lo apprende in tempo reale mentre le vittime scoprono altri mondi ai quali possono aspirare. Bussare alle porte del ricco diventa quindi possibile.

L’attualità del messaggio di Churchill si misura quindi in tutta la sua portata politica. Se l’Occidente si fosse mosso da allora, fine anni Cinquanta, per dar seguito ad una strategia di sviluppo dei Paesi dell’Africa probabilmente l’emergenza migratoria non sarebbe più tale. Ma vi è da dire che l’Europa di allora era concentrata a superare i traumi del secondo conflitto mondiale ed a distribuire ricchezza ai ceti sociali sino ad allora esclusi. Adesso che il benessere ha preso piede, se pur in modo diseguale e ingiusto, i veri esclusi restano loro, i poveri della terra. Chiudersi a questa realtà è di fatto impossibile. Rimanere schiacciati sull’emergenza umanitaria del presente è però fuorviante. Una politica di investimenti verso i Paesi in difficoltà con l’obiettivo di creare le premesse perché le popolazioni locali siano in grado di provvedere a se stesse è quanto auspicato dalla Fao. Nel rapporto 2016 dell’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura dell’Onu si afferma che in 21 dei 39 Paesi interessati l’insicurezza alimentare è la causa principale dei conflitti civili.

Una sorta di Piano Marshall di finanziamenti a fondo perduto è nell’agenda politica di alcuni governi europei. I dubbi di chi teme corruzione e ruberie si superano con l’obbligo da parte dei Paesi riceventi della verifica di quanto è stato fatto. Gli americani che così liberalmente hanno donato miliardi di dollari agli europei nell’immediato dopoguerra lo fecero in modo prosaico: il cuore in una mano e l’altra sul portafoglio. Avevano un obiettivo : fermare il comunismo, rinforzare la democrazia, ricostruire l’economia e porre le basi per un commercio transatlantico a sostegno delle loro aziende. Non erano filantropi, solo lungimiranti.

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