Lo strappo di Putin ricompatta l’Occidente

Il miracolo di Putin. In poche mosse il presidente russo è riuscito a resuscitare l’Alleanza atlantica, organizzazione giudicata – erroneamente e per troppi anni da parte dell’opinione pubblica internazionale – come inutile, tanto che anche le neutrali Svezia e Finlandia oggi vi chiedono l’adesione; ha ricompattato attorno all’anziano presidente americano Biden l’intero Occidente; ha fatto superare le differenze tra i tirchi europei al fine di inaugurare la stagione della Difesa comune continentale dopo decenni di vuoti discorsi; ha risvegliato l’onore delle democrazie attaccate per troppo tempo impunemente dalle autocrazie. In sintesi, un capolavoro.

In precedenza, in ambito ex sovietico, il capo del Cremlino ha ottenuto con gli eventi del 2014 - ossia l’«annessione» della Crimea e il «conflitto congelato» in Donbass – di far nascere concretamente la «nazione ucraina». Prima, se si passeggiava per le strade di Kiev, era difficile incontrare gente che parlasse la lingua di Taras Shevchenko, sebbene essa fosse la lingua di Stato.

Con i georgiani - unica popolazione del Caucaso di religione «ortodossa» e per due secoli unita ai russi in un unico Stato - Putin ha fallito la riappacificazione dopo la guerra del 2008, invero subita da Mosca per una provocazione – provata anche da una commissione di inchiesta Onu – orchestrata dall’ex presidente Saakashvili.

Tbilisi, adesso, insieme a Chisinau (Moldova) e Kiev ha formalmente richiesto di diventare membro dei Ventisette, dando ragione a quanti vollero nel 2004, a tutti i costi, l’allargamento dell’Unione europea anche a Paesi – allora non pronti dal punto di vista di alcuni valori condivisi - come dimostrano le recenti procedure di infrazione contro Polonia e Ungheria.

Ma non solo. Se si osserva, quanto ha fatto Mosca dopo il 1991 per mantenere insieme il pianeta ex sovietico perlomeno dal punto di vista culturale - lasciando stare una volta tanto gli aspetti politico-economici riassunti nella insulsa Comunità degli Stati Indipendenti (sorta dalle ceneri dell’Urss) – ci si rende conto di essere davanti a risultati a dir poco deludenti.

I milioni di migranti, che vengono a Mosca a lavorare dall’Asia ex sovietica, non sanno manco il russo. E sono passati appena 30 anni dal crollo. Ricordiamo, ad esempio, gli appelli delle università uzbeche di una quindicina di anni fa, affinché venissero consegnati libri in russo per permettere di preparare gli studenti, poi passati a formarsi su testi occidentali.

Vladimir Putin ha anche rivoluzionato la geostrategia russa, per tradizione preoccupata dalle centinaia di milioni di cinesi, posizionati sul confine, con lo sguardo sulla Siberia. Notoriamente è risaputo che il programma nucleare è soprattutto stato creato per essere impiegato in Asia. Ecco perché il suo abbraccio con Xi Jinpeng fa paura ai russi. Ma quanti oligarchi sarebbero disposti a lasciare le loro residenze a Londra o sulla Costa Azzurra per trasferirsi a Pechino?

Dopo l’elezione del 2018 Putin si è innamorato della concezione del «Russkij Mir», mondo russo. Il problema è che, da secoli, la Russia è sempre stata un mondo multietnico e multiconfessionale – infatti il vero nome è Rossijskaja federatsija, ossia Federazione dei russofoni, non Russkaja federatsija. L’elemento etnico «russo», predominante certamente, è uno dei tanti, come cinque sono le confessioni ufficiali – non solo l’ortodossa. Putin, in breve, ha fatto sue le concezioni del nazionalismo russo più radicale.

A Poltava nel 1709 è nata la Russia Potenza occidentale, a Kiev, sua «madre», tre secoli dopo, rischia il tramonto.

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