L'Editoriale
Lunedì 06 Agosto 2018
Lo Stato sociale
e la cura del povero
Con crescente disappunto mi accorgo che, anche presso amici di buona cultura e di sensibilità etica e sociale affine, per soppiantare una retorica ideologica operaistica, ormai logora e irritante, sta nascendo una nuova retorica altrettanto irritante: la retorica aziendalistica. Per essa, chi non vi si adegua sembra ignorare la ragioni della (post)modernità e arretrare alla cultura del Novecento. Certo, mentalità non rigide male sopportavano una narrazione in cui il lavoro e le sue problematiche erano troppo pesantemente ideologizzati e pervasivi e impostati schematicamente. Ma ora tutti i provvedimenti politici sembrano misurati su un nuovo art. 1 della Costituzione, secondo il quale l’Italia sarebbe una Repubblica fondata sull’impresa.
Non sono così ingenuo da non rendermi conto che non è né giusto né possibile separare lavoro e impresa e che le due categorie vanno di conserva perché sono interferenti. Ma mi indispettisce una santificazione aprioristica dell’imprenditoria attuale, che anch’essa spesso risente di una sensibilità rétro. È pur vero infatti, come ricordava mons. Spada, che ci sono stati e ci sono, specie nelle nostre piccole imprese, imprenditori che lavorano sodo, a fianco a fianco dell’operaio, e ne condividono le sorti solidalmente. E, del resto, non a caso queste piccole imprese, proprio per la loro dimensione solidale, non soggiacevano agli obblighi dell’ex art. 18. Chapeau a questi nobili amici! Ma tale rappresentazione rischia di suonare oggi ancor più retorica di quella operaistica. Siamo disposti a guardare con profondo rispetto i casi drammatici di imprenditori che una sensibile coscienza colpevolizza per il loro insuccesso, ma senza dimenticare che molto più frequenti e numerosi sono i casi, le folle, di operai portati alla disperazione. E non mancano peraltro quelli di imprenditori che comunque, nel disastro, se la cavano bellamente. Il vero è che non si possono strumentalizzare mai i casi seri e, per favore, manteniamo le giuste proporzioni del rischio!
Quando si chiama «internazionalizzazione» ogni delocalizzazione senza scrupoli, quando si giudicano modernamente virtuosi i lavori più precari, che sono più elegantemente chiamati «a tempo determinato», mi pare che sia sempre all’opera la retorica aziendalistica. Chi pensa mai ai drammi dello sradicamento e delle incertezze delle vite che non hanno agganci di affidabilità né stabilità di riferimento? Mobilità, mobilità: quanto sei moderna! Quando si giudica lo Stato sociale un arnese vecchio da buttare, quando si elogiano le detassazioni indiscriminate e appiattite, è ancora e sempre all’opera la retorica aziendalistica. Anche in casa cattolica. Mi pare di sentire a questo punto il coro dei detrattori dello Stato sociale che ne enfatizzano i limiti. Spesso, per vero, la critica allo Stato sociale e il panegirico dell’attuale situazione liquida sono mossi da chi ha avuto, fortunatamente, una vita di lavoro stabile e ora gode di pensione stabile. A questi ricorderemo che «non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te» è la regola aurea della reciprocità sociale. In ogni caso a me pare che lo Stato sociale sia tuttora la più grande conquista sociale del secolo XX, e che nulla gli toglie di dignità il cattivo uso che talvolta se ne è fatto, per clientelismo politico non di rado di marca cattolica.
A costo di passare per novecentesco (quale costitutivamente sono), queste idee mi sembra che restino, almeno come ideali ispiratori dell’agire politico, e ritengo che esse rappresentino un banco di prova primario dell’azione politica. Anche dell’operato del governo attuale, ben sapendo distinguere al suo interno i fermenti socialmente buoni da quelli nuovi ma retrivi; quelli anonimamente, ma sostanzialmente, «cristiani» da quelli ostentatamente, ma falsamente, «cristiani». Mentre vedo che la logica del giudizio è ancora disperatamente aziendalistica.
Noto con preoccupazione che, insieme con l’idea di Stato sociale, sta cadendo anche qualsiasi riferimento alla dottrina sociale della Chiesa. Chi la usa più? Come se essa avesse ottenuto il suo risultato sconfiggendo il comunismo materialistico e ateo! E non combattesse invece una lotta perenne contro ogni «cultura dello scarto»! Nel nome del populismo avanzante abbiamo reciso i legami con le intermediazioni politiche (i gruppi sociali, i sindacati, i partiti stessi…), lasciando la politica all’improvvisazione dell’internet e alla motilità della pancia; e i cattolici a coltivare i propri orti intraecclesiali. E con una utilizzazione astuta dell’ermeneutica, abbiamo depotenziato il principio, «senza glossa», della cura del povero, al quale ci richiama costantemente il magistero di Papa Francesco.
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