L'Editoriale
Giovedì 11 Agosto 2022
Lo Stato di diritto a rischio anche in Ue
Il commento. Da tempo, con gradualità volutamente a bassa evidenza, si va affermando in molte parti del mondo un processo di separazione tra democrazia e mercato. Ne è coinvolto un cospicuo numero di Paesi. Tra questi, assume particolare risalto l’esperienza della Cina che ha in Xi Jinping una guida autoritaria e fedelissima sia ai dettami anti-libertari del comunismo, sia alle regole del «libero mercato globale» del quale non manca di esaltare virtù e potenzialità in occasione dei suoi frequenti interventi nei principali consessi mondiali.
Una scelta obbligata, quella della Cina, nata dall’esigenza di realizzare annualmente una crescita vicina alle due cifre che le consenta di superare condizioni di grande arretratezza e povertà. Anche in Europa - che la tradizione vuole strettamente ancorata ai principi dell’economia di mercato e dello Stato di diritto - alcuni Paesi cominciano a evidenziare chiari segnali di separazione dai primari principi democratici. Una situazione questa, che sta assumendo connotati ancor più preoccupanti in presenza dell’invasione dell’Ucraina da parte di Putin che mira anche a contrastare il processo di unificazione europea. Lo scorso 13 luglio, la Commissione europea si è fatta carico d’inviare un rapporto a tutti i Paesi membri contenente specifiche «raccomandazioni» orientate a riaffermare e difendere la presenza dello Stato di diritto nell’intera Unione europea. In questo rapporto sono stati presi di mira in particolare Polonia e Ungheria, accusate di avere «problemi sistemici» in tema di Stato di diritto e quindi esortate, tra l’altro, a garantire l’indipendenza della magistratura e della stampa. La Commissione ha anche ricordato a entrambi i Paesi di essere oggetto dell’iter ex articolo 7 dei Trattati, che può comportare il congelamento del diritto di voto nel Consiglio europeo. Il permanere della previsione del «voto all’unanimità» ha fino ad oggi messo Ungheria e Polonia in una condizione di grande vantaggio, sfruttato da entrambe per ostacolare l’approvazione di molti provvedimenti importanti per l’evoluzione del progetto europeo.
L’intervento così duro e circostanziato della Commissione europea nasce dalla constatazione che nei due Paesi l’affermazione di «partiti populisti» ha dato vita a governi che negli ultimi anni si sono caratterizzati per decisioni nettamente distanti dai fondamentali principi democratici. Basti pensare al controllo dei media con la chiusura di quelli che si sono mostrati contrari al regime, ai continui interventi limitativi delle autonomie del sistema giudiziario e delle istituzioni culturali (in primis delle università), a vari interventi tesi a raggiungere il sostanziale controllo di quasi ogni aspetto della vita sociale. La crociata antidemocratica di Polonia e Ungheria ha trovato terreno fertile nell’esaltazione delle loro tradizioni imperiali e nell’estremizzazione delle tendenze anti-migratorie presenti soprattutto in larga parte della popolazione ungherese e decisamente assecondate dal primo ministro Orban. Questi, dopo aver eretto un muro ai confini con la Serbia, si è fatto recentemente paladino di un’azione finalizzata a evitare in Ungheria il «mescolamento delle razze». L’affermazione, poi, del principio «prima l’Ungheria e la Polonia» ha portato al rifiuto dei frequenti inviti rivolti dai responsabili delle istituzioni europee al rispetto delle regole comunitarie che sono state a suo tempo condivise, ma che Orban ha giudicato come «atteggiamento colonialista».
Si ha l’impressione, però, che con le sue ultime raccomandazioni del 13 luglio - sette per l’Ungheria e sei per la Polonia - la Commissione europea si sia mostrata finalmente decisa ad uscire con fermezza da questo paradossale equivoco che ancora oggi dà la possibilità a Paesi decisamente «euroscettici» di mettere in crisi il cammino stesso del progetto europeo. Non a caso la vicepresidente della Commissione Vera Jurova, rimarcando la necessità di mettere in primo piano la difesa dello Stato di diritto in tutti i paesi dell’Unione, ha dichiarato: «Possiamo rimanere credibili solo se la nostra casa è in ordine».
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