Lo spirito di Bergamo
in mostra col Palma

L’Uomo con i guanti e la Bella di Madrid si rivedono dopo cinquecento anni. Basterebbe questo per avere voglia di assistere ogni giorno al loro incontro, lui che arriva da San Pietroburgo, lei dal museo Thyssen. Giungono all’alba (da Orio?) entrano alla Gamec che non è ancora chiaro, salgono sulla parete e stanno lì, come quando Palma il Vecchio li dipinse a pochi anni l’uno dall’altra perché si osservassero, si stimassero, forse si amassero.

È il fascino di una mostra che abbiamo visto e consigliamo a tutti non perché ce la suoniamo da esperti d’arte, ma perché in quei saloni e su quei muri ritroviamo qualcosa che è difficile riprodurre in un ambiente chiuso, il carattere dei bergamaschi. Voi credete di andare a vedere solo delle opere d’arte? Niente di più sbagliato. Ci sono anche quelle e sono di livello pazzesco (all’inaugurazione c’era anche l’inviato del «New York Times» che apprezzava allestimento e tartine), ma il refolo di vento che rinfresca l’aria della Gamec è lo spirito di un popolo. C’è il coraggio d’una città che non ha paura di guardare negli occhi Londra, Parigi, Milano e di organizzare una mostra di questa portata, che la Fondazione Credito Bergamasco ha finanziato e amato sin dal primo giorno. C’è la perizia di aziende artigiane ruggenti che si sono occupate dei tessuti, degli abiti d’epoca, degli accessori, dei restauri, dei dettagli. Vedere il pavimento di quasi ogni sala ricostruito come se fosse la prosecuzione prospettica del pavimento del quadro dominante ti riempie d’orgoglio. Sapere che l’Opificio pietre dure di Firenze aveva chiesto otto mesi per rimettere in sesto il polittico di Serina e i maestri ebanisti bergamaschi hanno compiuto il capolavoro in due, lascia a bocca aperta anche il turista della domenica.

C’è la modernità del fruire arte nel giardino di respiro internazionale che accoglie il visitatore. C’è l’approccio didattico nordico per i bambini nella sala dei restauri, dove anche i più piccoli possono giocare a ricostruire il mondo in cui Palma dipingeva. C’è la percezione di solidità, di tradizione. E tutto questo ci fa dire che non ha più senso piangersi addosso, ritenersi superati dalla globalizzazione, cercare solo altrove la luce della conoscenza. È molto bergamasco fissare con la lente il pelo e dimenticarsi delle proprietà nutritive dell’uovo da cucinare. O, come accadde a Cristoforo Colombo, da far stare in piedi. La forza di un’idea, che sia una mostra di pittura o un’impresa economica o un progetto di vita, qui è ancora vincente.

Alla Gamec in questi mesi sembra di essere in un museo di storia naturale. Senti l’anima di un territorio, le sue capacità, il suo passato, la sua voglia di tornare protagonista. Ora toccherà all’Accademia Carrara, riapre dopo sette anni e avrà tante responsabilità sulle antiche spalle. Ecco, vorremmo che queste eccellenze culturali non fossero travolte dalla legge del botteghino, dall’ansia da prestazione. Come se qualcosa di bello dovesse essere per forza dominato da un numero alto. Il termine di paragone per una volta non è la classifica dell’Atalanta, qui il like della generazione Facebook conta poco. Quindicimila persone che finora hanno voluto salutare dopo 500 anni quell’uomo e quella donna sono tante, ma è più importante sapere che la nostra città può essere capitale della Cultura. Ora lo è, senza fanfare com’è nello stile della casa. Il Louvre non intendeva concedere i suoi Palma, i signori parigini facevano come sempre i sostenuti. Quando hanno visto che stavano arrivando da tutto il mondo, attratti da solidità e credibilità, hanno detto: «Vogliamo esserci». A Bergamo, non altrove.

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