L'Editoriale
Domenica 07 Gennaio 2018
L’Italia in Africa
cosa c’è in gioco
La questione migratoria sarà uno dei temi della campagna elettorale, per quanto sembra evolvere in senso sfavorevole ai populisti: un capitolo da affrontare con razionalità, senza farne un’ossessione. Non solo si assiste ad una netta flessione degli sbarchi, ma la recente apertura, per la prima volta, di un corridoio umanitario Libia-Italia dice come sia possibile tenere insieme i tanti aspetti di un fenomeno ormai storico. La «dottrina Minniti», lotta all’illegalità attraverso la gestione legale dei flussi, pur non esente da rilievi critici (anche da una parte dell’associazionismo cattolico), è coerente con la strategia dei governi Renzi e Gentiloni adottata in questa legislatura: cercare una risposta comune degli Stati europei e della Ue, stabilizzare la Libia, coinvolgere l’Onu a Tripoli per contrastare la vergogna dei campi di detenzione dei profughi, e incidere chirurgicamente sulle fonti ambientali e geografiche che alimentano i traffici degli esseri umani.
Siamo solo agli inizi, tuttavia qualche risultato c’è. Le migrazioni sono diventate parte integrante dell’agenda internazionale e mai come in questi anni l’Italia è stata in prima linea per interloquire con le tante Afriche, offrendosi come sponda per costruire un percorso fatto di diplomazia, aiuti pubblici e imprenditoria privata, invertendo così la tendenza all’approccio settoriale. Siamo l’unico Paese occidentale ad avere un ambasciatore a Tripoli e in questi giorni è stata inaugurata la nostra sede diplomatica in Niger, dove invieremo un contingente militare. Sul «Corriere» di ieri Giampaolo Silvestri, segretario generale dell’Avsi, una ong che lavora per lo sviluppo sostenibile, richiamava la necessità di non sprecare la novità del rapporto con l’Africa che vede l’Italia protagonista nelle aree di crisi: da un lato la legge sulla cooperazione del 2014 ha fornito strumenti importanti, dall’altro al posto dei vecchi colonialismi si fa strada la logica della partnership alla pari.
Le priorità dell’Italia, come ha ribadito il vice ministro degli Esteri Mario Giro alla rivista «Limes», sono la Libia e il suo retroterra strategico, i nuovi confini a Sud dell’Europa: è qui che investiamo in termini di sicurezza per il nostro Paese e il prossimo invio di soldati in Niger sarà, per la prima volta, nella tutela dei nostri interessi nazionali. La Libia cattura una serie di interessi per le sue risorse, perché rappresenta un vuoto geopolitico da colmare e per evitare il contagio regionale di uno Stato fallito, in stile Somalia. La Libia in questo 2018, che potrebbe essere l’anno delle elezioni, non è più un Paese perso, ma è ancora lontano dall’essere uno Stato. Un quadro in stand by, come dice l’ambasciatore Giuseppe Perrone. Due governi rivali: quello di Tripoli sostenuto dalla comunità internazionale e dall’Italia e quello di Tobruk appoggiato da Francia, Egitto e Russia. L’Isis ha subito contraccolpi significativi, ma si sta riorganizzando nel Sahel con i combattenti in uscita dalle sconfitte in Siria e Iraq. Sul campo, poi, operano almeno 150 milizie che fanno affari con qualsiasi genere di traffici ed esercitano un effettivo controllo locale. Lo snodo nevralgico si colloca al confine fra terrorismo e conflitto civile e riguarda proprio la contesa per il potere. Quella dei trafficanti è una piaga destabilizzante sia per la Libia sia per tutta l’area francofona del Sahel: l’azione di contrasto, perché metta al sicuro i risultati ottenuti, deve estendersi a Paesi come il Niger, uno degli Stati di partenza dei circuiti migratori. Da qui la decisione dell’Italia, dopo l’accordo di cooperazione a settembre, di inviare 470 soldati nell’ex colonia francese. Ci vorrà il via libera del nostro Parlamento, pur sciolto, per una missione non da combattimento, i cui contorni andranno precisati. I nostri soldati non saranno impegnati in operazioni contro le milizie jihadiste, ma dovranno addestrare e fornire un supporto ai nigerini perché siano in grado di garantire la stabilità dell’area. L’invio dovrebbe entrare a regime da giugno, mentre il nuovo quadrante operativo sposta la gerarchia delle nostre 33 missioni internazionali che schierano 6.800 militari in 22 Stati. I nostri reparti in Afghanistan e in Iraq verranno ridotti e il faro sarà puntato sull’«Africa italiana»: un riequilibrio a conferma dei nuovi interessi in gioco, compresa la nostra sicurezza nazionale. Forse il punto di svolta geopolitico non è chiaro a tutti: anche per questo meriterebbe, in campagna elettorale, un dibattito adeguato.
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