L’Italia già narrata
e quella che reagisce

L’Italia che ieri il Censis ha raccontato in occasione del suo 50° Rapporto è un’Italia che in fondo conosciamo bene e nella quale ci riconosciamo. Un Paese fermo, che vive grazie alla rendita di risparmi pazientemente accumulati in attesa di non si capisce bene quale svolta che rimetta in moto la storia. Un Paese che non sa immaginare il proprio futuro e quindi tanto meno è in grado di scommetterci. La lettura del Censis è in un certo senso una lettura che aderisce alla percezione che gli italiani hanno di se stessi e del momento che stiamo vivendo: un sottofondo negativo dal quale si staccano poche fortunate eccellenze che vanno a tutt’altra velocità e che costituiscono una sorta di «sovrapaese» la cui ricaduta su ciò che sta sotto è assolutamente minima («un’Italia che pensa solo a se stessa e a far primato», l’ha definita Giuseppe De Rita, presidente del Censis).

Turismo, enogastronomia, moda, anche macchine utensili continuano a tirare l’esportazione e a mantenere il Paese al 10° posto nella graduatoria mondiale dei Paesi esportatori, ma questo non incide più di tanto sulla realtà e tanto meno sull’immaginario che gli italiani si sono fatti di se stessi. Un saldo commerciale positivo di 98,6 miliardi di euro sembra volatilizzarsi nella percezioni collettiva come anche nelle ricadute economiche e sociali. Così da una parte si registra un’effervescenza di una parte fortunata d’Italia da copertina, e dall’altra un sottofondo depressivo che segna la vita di quasi tutti.

Ma a questo punto sorgono due domande: quanto servono narrazioni di questo tipo, se in un certo senso raccontano un Paese di cui tutti abbiamo già esatta percezione? E, seconda domanda, una narrazione di questo tipo davvero non si lascia dietro qualcosa di non visto, non intercettato? Qualcosa che non sfugge dalle maglie degli analisti?

Cominciamo dalla prima domanda. Il Censis è sempre stato un interprete sottile e profondo del nostro paese. Ha scovato fenomeni carsici con grande acutezza. Ma ultimamente sembra vittima di una dinamica che coinvolge quasi tutti gli intellettuali e gli osservatori della realtà italiana: vengono risucchiati dalla stessa realtà che raccontano. La loro narrazione non è più capace di rischiare visioni in avanti, né di proporre provocazioni sane, ma resta schiacciata dal fatalismo che contrassegna questo momento della vita pubblica. Insomma i narratori sono loro stessi permeati dalla propensione depressiva dell’Italia che narrano. Per questo leggendo il 50° Rapporto Censis spesso si ha la sensazione di leggere valutazioni che rispecchiano, naturalmente con la sistematicità e la chiarezza che è propria dei bravi sociologi, ciò che la maggioranza degli italiani pensa di sé e del proprio Paese. Quanto alla seconda domanda, l’impressione è che sfugga dalle narrazioni un fenomeno che invece sta segnando tanti settori della vita del nostro Paese. Davanti alla crisi c’è certamente un’Italia, ben dipinta dal Censis, che stacca la spina e si rivela incapace di reagire, ma c’è anche un’altra Italia su cui la crisi ha fatto un effetto opposto: ne ha risvegliato un inedito e imprevisto protagonismo. È un attivismo diffuso, che fa sì che migliaia di genitori si prendano cura della scuola dei figli senza aspettare lo Stato e senza neanche recriminare; che fa sì che nuove solidarietà di vicinato coprano i tanti bisogni a cui l’amministrazione pubblica non sa più rispondere; che cittadini inizino a prendersi cura del verde pubblico considerato bene comune. Che giovani di un istituto professionale si ingegnino per dotare di bellissime luminarie il loro quartiere di periferia che non le aveva mai avute (è accaduto in questi giorni al quartiere Olmi a Milano). E anche per quanto riguarda le emergenze le risposte dal basso sono sempre al di sopra delle attese: basti pensare alle mille forme con cui l’Italia ha saputo rispondere all’ondata dei migranti, con forme inedite di accoglienza diffuse in cui sono state coinvolte associazioni, parrocchie, persino famiglie. Tutto questo non si tradurrà in Pil, non sarà narrazione da copertina, ma viene a costituire qualcosa di più prezioso: un capitale umano e sociale di un Paese che c’è e che non rientra nelle narrazioni dominanti. E che soprattutto non ha intenzione di arrendersi al fatalismo.

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