L’invincibile Renzi
e gli inni ai vincenti

L’invincibile. Questo appare Renzi oggi e per questa sua qualità è celebrato e blandito. Eppure, dopo la vittoria nel voto di fiducia posto sulla legge elettorale inizia a levarsi, tra le voci osannanti, qualche timido dubbio: a che prezzo? Qualche dubbio s’affaccia a rompere il coro anche nella più autorevole stampa nazionale, che pure era stata lesta a celebrare le virtù dell’enfant prodige della politica italiana. Di nuovo, in tutto questo, nobili ideali e interessi traditi si mescolano. Ciò nondimeno, il dubbio attorno alle ragioni del vincitore è sano. Lo dovrebbe sapere il cittadino consapevole di vivere in una democrazia costituzionale.

La Costituzione, nella storia, è la conquista di chi ha imparato che il consenso non sempre è sufficiente e neppure è indicativo della ragione. Esso può essere costruito o conservato ambiguamente o abusivamente. Non sempre chi vince ha ragione e soprattutto ragione e torto non si possono decretare quando ancora il fumo della battaglia impedisce una nitida visione. Quanti osanna a Mussolini e a Hitler si sono tramutati in pudico silenzio o vergogna, se non in abiura? Quante leadership celebrate e repentinamente (si pensi, da ultimo, a Monti)?

Il diffuso vizio di inneggiare al vincente dell’oggi come colui che «ha ragione» non è solo della politica. È un dato che caratterizza la cultura stessa, che esalta prontamente il successo, incoronando e trascinando sul palcoscenico eroi del bene e del male, salvo poi repentinamente scordarli e sostituirli con nuovi «vincenti». Queste metamorfosi sono un risvolto coerente di una cultura individualistica, che avendo rimosso i debiti del passato e le responsabilità verso il futuro, legge le vicende storiche in termini di successioni di attimi, segnati da individui vincitori e da individui vinti. In questa esaltazione del vincitore, per quanto effimero, si cela il rischio di imputare al debole, sconfitto, la colpa della sua sventura.

Tornando alla politica attuale, le vittorie di Renzi possono avere tante ragioni, ma pure qualche indubbia ambiguità: come quando sono state ottenute rompendo i patti o tradendo la parola data, com’è avvenuto con la scalata di Renzi al governo nonostante le rassicurazioni a Letta e poi con l’elezione di Mattarella alla presidenza della Repubblica, mediante la rottura del «patto del Nazareno». Lo stesso fenomeno interessa l’altro vincente del momento, il Matteo della Lega, cui pochi chiedono giustificazione di come si possa passare, con una qualche coerenza, dal mito della Padania a una destra lepenista di stampo nazionalistico. Poiché anche Salvini è tra i vincitori dell’oggi, se ne decanta il «genio» politico.

Seppur in alcuni casi (l’elezione di Mattarella) l’esito sia stato apprezzabile, il rischio insito in tale spregiudicatezza è di rendere sospetti e inaffidabili la parola e l’accordo. Quando la parola diviene inaffidabile e la coerenza un mero optional, le fondamenta della convivenza sono indebolite in profondità. Oppure, la vittoria è ambigua quando si ottiene forzando sulle regole del gioco, siano esse costituzionali o elettorali. Anche in questo caso, l’esito può essere buono o meno buono, ma il metodo unilaterale seguito appanna e incrina pericolosamente il senso delle regole – quelle costituzionali in primis – di «civilizzare» la dialettica politica. Insomma, vittorie di questo tipo aprono crepe nella dimensione etica della politica, quella che esige responsabilità verso la parola data; e nella dimensione costituzionale della democrazia, quella che, al di sopra della dialettica tra le parti, salva valori condivisi.

La democrazia è stata storicamente inserita entro una cornice di regole costituzionali proprio perché si può vincere tradendo, illudendo, barando, minacciando e perfino dividendo. E il consenso non può sanare tutto questo. Per questo motivo, la democrazia costituzionale affianca a organi investiti dal consenso popolare organi di garanzia, cui si chiede di dare espressione ai principi più solidi dell’ordinamento. La Costituzione, in generale, sta dalla parte dei vinti e dei deboli: questo ovviamente non significa che essa serva da strumento di opposizione per le forze politiche perdenti, ma certo essa diffida del potere, sicché al giudizio del potere non può essere consegnata.

Ma i contropoteri istituzionali non bastano: anche la società deve elaborare le sue difese immunitarie e costruire i suoi argini. La cultura e l’informazione dovrebbero servire soprattutto a questo: chiamare il potere a rispondere continuamente di se stesso, anziché assolverlo dall’onere minimale della responsabilità e della coerenza, magari nel nome di un efficientismo dal respiro corto.

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