L’Europa in bilico
sugli spettri populisti

Il Forum annuale sotto la neve di Davos si è concluso senza un messaggio vero. Lo scorso anno, almeno, il presidente cinese Xi Jinping aveva sbalordito difendendo il libero mercato e ammonendo, con chiara allusione al neo Presidente Usa Trump, che «da una guerra commerciale nessuno emergerebbe vincitore». Una candidatura quasi convincente dell’ultimo comunista a nuovo leader del capitalismo mondiale. Quest’anno, Davos è tornato ad essere una passarella delle vanità, il luogo da cui non si può essere assenti, con unico brivido il selfie dei privilegiati con «the Donald» che portava nelle montagne svizzere lo scalpo di una drastica riduzione fiscale e il nuovo boom di Wall Street, a dispetto di tutti i caricaturisti del suo ciuffo ora un po’ lisciato.

C’è però da chiedersi che cosa abbia rappresentato l’Italia su quel palcoscenico fastoso e costoso, per l’immaginario dei grandi decisori dell’economia internazionale. Poco, si dirà, ed è vero. Gentiloni ha fatto a Davos l’apparizione dignitosa e rassicurante che è nel suo stile, e ha profittato per rafforzare la presenza italiana nel nuovo asse francotedesco. L’avvento di un Macron in versione Inno alla gioia e di una Merkel che ha un alleato filoeuropeo con cui sta scrivendo il programma tedesco, consente all’Italia di dare un contributo da terza potenza continentale, essendo comunque europeista l’unica nostra opzione.

Nel consesso internazionale, i progressi italiani sono stati notati più positivamente che in patria, ma tutti sanno che le prossime elezioni sono un salto nel buio. Nel 2017 si temevano sfracelli altrui, ma in Olanda e in Francia il populismo nazionalista ha perso, e il Regno Unito ha dovuto pagare i danni della Brexit.

Ora tocca a noi, e l’Europa si fida poco di un Paese che già nel 2013 non presentò vincitori. Ma il quinquennio ha avuto comunque una sua stabilità politica e, da Oltralpe, si è data ben poca importanza a divagazioni tutte nostrane come quella dei Premier non eletti dal popolo (la Costituzione non è cambiata, e solo il Parlamento decide chi governa) e da figure immaginarie come quelle dei candidati premier, non previsti dalla legge, e oltretutto – leggendo i sondaggi – gli unici certi di non poterlo diventare.

Non sapremo mai se è vera l’indiscrezione secondo la quale Berlusconi avrebbe garantito al presidente del Ppe e a Juncker che non avranno spazio le idee di Salvini sull’euro, sulla Fornero, sulla passione per chi boicotta Bruxelles, in linea con Trump, Putin e addirittura Orban, l’autocrate di Budapest. Sono cose verosimili solo se si pensa alla vecchia propensione di Berlusconi ad essere contemporaneamente «concavo e convesso» a seconda degli interlocutori, ma questo non significa un nuovo Nazareno, per i numeri probabili e per gli effetti dei veleni di una campagna elettorale dirompente.

Né crediamo alla favola di uno spread sceso a seguito di questa indiscrezione, perchè siamo comunque i vigilati speciali di un’Europa che i populismi li ha in casa e li conosce bene. C’è invece qualcosa che possiamo fare prima che scatti la tentazione di speculare sull’Italia, ora che persino la Grecia si è rimessa in sesto, e cioè avere le idee chiare su alcuni fatti basilari.

Il principale è esorcizzare l’istinto protezionista che proprio a Davos Trump ha evocato con enfasi. Fa del male agli Usa quell’America first, ma gli Stati Uniti hanno le spalle larghe. Farebbe ancora più male a noi non essere intransigenti nel respingere queste sirene. Ha ragione Calenda che chiede di non parlare a sproposito di dazi. Per fortuna che non dipendono dalle decisioni di un Parlamento eventualmente inebriato da una vittoria populista, ma proprio dall’Europa, come fa finta di non sapere chi fabbrica slogan senza senso. Liberi tutti di votare chi si vuole, anche a dispetto, ma attenzione a chi vuol punire la capacità di esportazione della nostra industria. Per le province prealpine sarebbe un autogoal spaventoso.

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