L'Editoriale
Venerdì 18 Novembre 2016
L’eurocrate Juncker
e i guai dell’Unione
Claude Juncker, presidente della Commissione europea negli anni più fragili dell’Unione non è certo una novità per chi lo frequenta. Del resto Juncker non è un diplomatico. Non le ha mandate a dire nemmeno al neopresidente degli Stati Uniti: «Con Trump perderemo due anni: il tempo che faccia il giro del mondo che non conosce. Dovremo anche spiegargli cos’è l’Europa e come funziona». Tra lui e Renzi ormai è guerra aperta, dopo il veto sul bilancio annuale del 2017 approvato ieri. Le pacche sulle spalle e le strette di mano non riescono più a nascondere l’insofferenza di Renzi per quest’Europa «che finanzia i muri», complice anche il vento trumpista che spira da oltreoceano.
Ultimamente Juncker per apparire quel che non è, sembra preso da una strana frenesia. Ha avuto l’ardire di andare in pressing persino su Berlino, di cui è notoriamente succube. La Commissione europea infatti ha chiesto di stimolare la domanda interna tedesca e di fare investimenti fuori dai confini nazionali a favore degli altri Paesi dell’Eurozona. L’enorme surplus tedesco della seconda potenza manifatturiera mondiale mette infatti a rischio la competitività degli altri Paesi europei. Toh, finalmente qualcuno a Bruxelles se n’è accorto!
Visto che nessuno lo ascolta e visto lo stato in cui è ridotta l’Europa, le esternazioni di Juncker finiscono per divenire ancor più fuori luogo, irritanti come quelle di un ubriaco da bar. E qui veniamo subito al punto: la principale fama di Juncker è quella di essere uno che alza il gomito, dunque bisognerebbe sempre decontestualizzare rispetto all’ora in cui ha fatto certe dichiarazioni. Questa fama di outspoken etilico lo accompagna da sempre. Di certo è un grande intenditore di vini e un gran bevitore oltre che un incallito tabagista, ma affrontando l’argomento con la giornalista di «Liberation» ha negato di essere un alcolista. «Juncker ha negato di aver problemi con l’alcol in un’intervista in cui ha bevuto quattro bicchieri di Champagne», sintetizzò il quotidiano britannico «Telegraph». Sposato con Christiane Frising, avvocato senza mai aver esercitato, poliglotta come tutti i lussemburghesi, Juncker ha due figli e un vasto curriculum internazionale di banchiere (Banca Mondiale, Fondo Monetario, Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo). Originario di Redange-sur-Attert, nel Granducato di Lussemburgo, di cui è stato premier fino a quando si è dimesso in seguito a uno scandalo, è un veterano dei palazzi comunitari, l’eurocrate per antonomasia. È tra l’altro il solo ad aver assistito alla ratifica del trattato di Maastricht del 1992. «Io è l’euro siamo gli unici superstiti a Maastricht», ama dire.
Sarkozy non sopportava le sue battute fuori luogo. Al presidente cinese Xi Jinping una volta disse: «Ma si rende conto che in due rappresentiamo un quarto dell’umanità?». Al vertice di Riga del 2015 ha baciato la testa pelata del belga Michel, ha salutato il premier ungherese Orban con un «Ciao dittatore!», a un altro ha sistemato la cravatta, a un altro l’ha sfilata, a un altro ancora ha notato: «Guarda, le abbiamo uguali!». Quando vede un nuovo politico domanda «E questo chi è?». Poi naturalmente c’è il presidente del lavoro in Commissione e dei discorsi al Parlamento di Strasburgo. Sul piano dei principi Juncker non si stanca di dire che l’Unione deve fare di più in tema di accoglienza. Parla di rigore, ma anche di flessibilità. Inneggia al liberismo, ma è favorevole a un salario minimo in tutti i Paesi Ue. Inzuppa i suoi discorsi di solidarietà, fraternità, integrazione. Parole, parole, parole. I risultati poi sono l’esatto opposto, con un’Europa che continua ad alzare muri urlando all’invasione anche di fronte a poche centinaia di richiedenti asilo.
E qualcuno potrebbe sospettare che dietro si nasconda un gran cinico, chiuso nella sua bolla di Bruxelles. In pochi anni Juncker si è bevuto venti milioni di disoccupati, il referendum francese e quello inglese che hanno bocciato la Costituzione, il muro in Ungheria, il no alle quote, e infine la Brexit, con la stessa disinvoltura con cui tracannerebbe un bicchiere di Bordeaux o un bianco della Mosella. E si capisce perché questo allegro eurocrate lussemburghese abbia finito per simboleggiare tutti i guai europei, tutta la debolezza, la ferocia e la vacuità dell’Unione in cui ci dibattiamo.
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