L’Euro è forte ma l’Europa
è ancora piccola

Danzando sopra e sotto la soglia, più sopra che sotto, di un dollaro virgola venti, fino a poco tempo fa considerata molto alta e anche un pò pericolosa, il super euro sembra intenzionato a durare e a far mangiare la polvere a tutte le altre valute. La moneta più giovane del mondo è cresciuta da inizio anno del 14,5% sul bigliettone verde, ha staccato del 7% la presuntuosa sterlina, di oltre il 5 il giapponese yen e del 6,3% il franco svizzero. Ora, magari, rischia di esagerare un po’, e quelli che prevedono possa salire fino addirittura all’1,3/1,4 sul dollaro (è già accaduto) sono considerati dei menagramo, perché potrebbero dar fastidio alle nostre brillanti esportazioni.

Vero che il made in Italy è ormai uno status symbol, ma certi prezzi spaventano anche sulla Quinta strada. Quello che sta accadendo è l’effetto algebrico di due fatti: l’irrobustimento dell’area euro e l’incertezza dell’economia nell’era Trump, con la Fed che non riesce ad alzare i tassi d’interesse come promesso. Lo si era capito già ad inizio mese quando, nella deliziosa cornice western del Wyoming, a Jackson Hole, si erano riuniti i governatori delle Banche centrali, salvo il malmostoso capo della Banca d’Inghilterra, e sul palcoscenico aveva brillato, per la prima volta, non la padrona di casa Usa ma il nostro Mario Draghi. Una novità assoluta, al tempo del sovranista e protezionista Donald Trump, che con il suo «America first» è già riuscito a far danni rilevanti al suo Paese. E pensare che la Yellen è a capo di una vera Banca centrale, molto importante nella bilancia dei poteri Usa, mentre Draghi è banchiere centrale solo fino ad un certo punto, primus inter pares tra 19 governatori nazionali, un paio dei quali, tra cui quello tedesco, non proprio d’accordo con lui. Ma Draghi porta all’occhiello l’euro, la moneta che la crisi doveva spazzar via per la gioia dei suoi nemici, ed è invece più forte che mai, anzi troppo forte. Sullo sfondo, ovviamente, la politica. Per la Yellen c’è l’ombra massiccia di Donald Trump, che in pochi mesi ha cacciato via tutti, neanche fossero assessori al Bilancio del Comune di Roma, ma non ha potuto toccare proprio la presidente Fed, violentemente bersagliata in campagna elettorale.

È caduto solo il suo vice. Vero è che il suo mandato è vicino alla scadenza, ma anche Draghi se ne andrà tra un anno e mezzo. Con lui, però, persino la Germania è indulgente, non solo con la Merkel ma recentemente persino con il mastino Shaùble. Mister Euro vince insomma nettamente su Miss dollaro. È più credibile, più autorevole, pur stando sulla costa apparentemente più debole dell’Atlantico, perché l’euro è un baluardo. Tutte le economie dell’area sono in rialzo da 17 trimestri consecutivi, e il surplus commerciale (si esporta più dell’import) è da record. Anche la nostra Italia, pur arrancando rispetto alla media europea, ha un Pil finalmente in crescita e soprattutto fa ombra (i dati sono stati confermati ieri) a Francia e Germania per quanto riguarda lo sviluppo industriale. Dove, se mai, Draghi ancora non ha portato a casa il risultato, è sulla contenuta crescita dell’inflazione, che è una brutta bestia quando sale troppo, ma è anche una bel ammortizzatore di debiti e disavanzi quando sta attorno al 2%. E così tarda l’annuncio dell’inizio del «tapering», cioè della diminuzione graduale dei 60 miliardi di euro al mese di liquidità immessa nel sistema euro, con sollievo italiano (ma rischio non buono di assuefazione).

Politicamente, però, l’euro forte stride ancora con il piccolo ruolo dell’Unione Europea nel mondo. Le responsabilità non sono tutte di Bruxelles, che è una piccola burocrazia (inferiore per numero di addetti a quella del Comune di Roma), ma delle spinte politiche ancora ondeggianti, per motivi elettorali, tra nazionalismi e protezionismi anacronistici. L’aver affossato il trattato di libero scambio con gli Usa non è colpa di Trump, è colpa della miopia europea ai tempi di Obama. Fa dunque bene il presidente del Parlamento europeo Tajani quando parla di 6 miliardi da investire in Africa. Sarebbe una politica uguale nella consistenza (anche lì 6 miliardi), ma ben diversa nella sostanza, da quella della paura che ha consegnato alla Turchia di Erdogan soldi solo per tappare una falla sui migranti. Eppure, gli elettori europei, in questo 2017, hanno cancellato sospetti di populismo e nazionalismo che sembravano molto fondati. Tra pochi giorni tocca a Berlino, che si avvia alla conferma non tanto della Merkel, quanto di un sistema complessivo, fatto di tradizioni politiche cristiano democratiche, liberali e socialiste, senza dar spazio al nuovismo, che c’è anche li, ma minoritario. Quanto all’Italia questi esempi evidentemente non bastano se ancora, a proposito di euro, abbiamo assistito alla stravaganza estiva della doppia moneta per mediare con Salvini. Ci fosse stata ancora la lira, una cosa del genere l’avremmo pagata cara. Ora tocca alla manovra economica di fine anno dimostrare che mentre un italiano di ferro gestisce l’euro, l’Italia non è di coccio.

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