Le scimmie clonate
Una deriva scientista

L’uso degli animali per la sperimentazione scientifica costituisce da tempo una questione cruciale in bioetica, da quando si sono venute a contrapporre, semplificando molto, due correnti di pensiero che hanno visto da un lato gli animali al servizio dell’uomo, in una prospettiva antropocentrica (in cui, comunque, l’uomo si pone come garante del benessere degli animali che usa); dall’altro, in una prospettiva anti-antropocentrica, l’uomo è visto come uno dei tanti viventi presenti dell’universo che non avrebbe un valore superiore a quello delle altre specie e dunque non sarebbe giustificato utilizzare gli animali per il beneficio dell’uomo, pena l’incorrere in un deprecabile «specismo».

Se valutiamo la clonazione delle due scimmie ottenuta dai ricercatori dell’Accademia cinese delle scienze di Shanghai attraverso le due diverse prospettive potremmo dire che, nella visione antropocentrica, questa nuova tecnica di «trasferimento nucleare» per gli animali che è stata utilizzata e che supera i precedenti esperimenti condotti sui primati offre una rilevante possibilità di fornire dati utili nell’ambito della ricerca: geneticamente scimmie e esseri umani sono piuttosto simili, sia pur non identici, e quindi per le patologie in cui la genetica gioca un ruolo decisivo l’uso dell’animale clonato nella ricerca porterebbe evidenti vantaggi e darebbe importanti elementi prima di passare con più sicurezza sull’uomo. In questo senso essa risulterebbe dunque, almeno in linea di principio, eticamente giustificata. Tutti i codici etici relativi alla sperimentazione sull’uomo richiedono che sia espletato prima il passaggio sull’uomo e dunque sarebbe salvaguardata la prospettiva personalista.

Se si valuta la stessa clonazione secondo la prospettiva animalista si dovrebbe rigettare come non etica in quanto si sacrificherebbero animali per favorire altre specie (l’uomo) che non sarebbero ontologicamente superiori. Non risultano ancora interventi di animalisti al riguardo di questa clonazione ma certamente avrebbero di che ridire di fronte all’enorme numero di embrioni di scimmia che sono stati sacrificati (i ricercatori hanno dovuto provare almeno 80 volte) prima di avere questi due esemplari. Questo la dice lunga sul fatto che siamo ancora lontani da un uso affidabile della tecnica.

Sul piano etico, se la prospettiva rimane quella personalista prima richiamata dovremmo ritenerci ottimisti, perché questi risultati ottenuti nei primati possono portare ad una migliore comprensione delle malattie umane – per esempio l’Alzheimer o il Parkinson – che non hanno la possibilità di essere studiate sui topi. Se invece la prospettiva è quella di arrivare alla conclusione che non c’è differenza ontologica tra l’uomo e gli altri animali ecco allora che il passaggio dall’animale all’uomo diventa gravemente pericoloso problematico.

«Produrre» un uomo clonato al di fuori di qualsiasi relazione personale tra un uomo e una donna, l’unico contesto generativo appropriato, per sperimentare una nuova modalità di generazione della vita compromette tutto il valore della persona e ne impedisce il riconoscimento della sua dignità. «Produrre» un uomo clonato con finalità terapeutica, come serbatoio di cellule o organi di ricambio che servano ad altri esseri umani malati è del tutto incompatibile con il rispetto della vita umana che non può essere usata mai come mezzo ma sempre solo come fine.

* Direttore dell’Istituto di Bioetica e Medical Humanities - Università Cattolica

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