Le larghe intese
Chi paga il conto

Mai nessuna elezione in tempi recenti s’è annunciata così incerta e dai risultati forse ingestibili, tali da anticipare un possibile salto nel buio. C’entra anche la legge elettorale, che ha l’aria di essere transitoria, ma pure la recessione politica che ha sostituito quella economica. Ognuno si regola: i leader si spendono in dichiarazioni ballerine del giorno prima, ma quelle del giorno dopo si faranno sui seggi conquistati. Nel caso di un voto senza vincitori, sembrerebbe esclusa la via spagnola, un ritorno immediato alle urne, sia per i tempi dei passaggi parlamentari sia per le cautele del Quirinale al riguardo. Dopo il 4 marzo il primo atto sarà l’elezione dei presidenti delle Camere e già lì si vedrà come si annusano vincitori e perdenti (in senso relativo), avversari e aspiranti alleati.

Tempi lunghi, più le consultazioni del Quirinale per il governo. Si potrebbe arrivare all’estate, quindi niente elezioni, poi eccoci in autunno con la legge di bilancio. Si dovrebbe quindi andare oltre, avendo in tasca una nuova legge elettorale: insomma, nella migliore delle ipotesi se ne riparlerà. Ricordando che sul tavolo c’è l’ipotesi G (Gentiloni), perché il governo non s’è dimesso, e che il meccanismo del proporzionale affida un ruolo decisivo alla discrezione del presidente della Repubblica.

In questa tornata non c’è alcun candidato premier, e neppure ci potrebbe essere: il suo nome uscirà dalle consultazioni di Mattarella. In definitiva: l’esito del voto non chiude la partita come avveniva con il maggioritario, ma la prolunga nel secondo tempo. Il punto più controverso riguarda la soluzione tedesca delle larghe intese, regolarmente smentita dai due personaggi chiamati in causa (Renzi e Berlusconi), sospettati a mezza voce di accordi sottobanco. È la questione tabù, il convitato di pietra, ma è credibile? Il Rosatellum, che ha un forte impianto proporzionale, esce dalla logica bipolare e apre una nuova fase: le coalizioni, in misura maggiore rispetto al recente passato, rischiano di essere un’operazione elettorale e non un progetto politico mentre in Parlamento, piaccia o meno, si dovranno costruire maggioranze tra liste e coalizioni fin lì in competizione. Il centrodestra offre un paradigma indicativo: a parte la flat tax (la tassa piatta), non c’è argomento che riunisca sotto lo stesso tetto Berlusconi e Salvini. L’ex Cavaliere, la cui spinta sembra essersi un po’ fermata, oscilla fra il tentativo di arginare la spinta oltranzista di Salvini e di inseguirlo sui temi più sdrucciolevoli e dirompenti, sapendo che i suoi vincoli sono quelli posti dal partito della Merkel. Lo stesso Berlusconi, che è tornato sotto l’ombrello del popolarismo europeo nel momento in cui la stella della cancelliera non brilla più come un tempo.

Renzi, nel frattempo, indugia nell’attendismo e guida un partito dal precario equilibrio: la tragedia di Macerata, quanto a ricaduta sul consenso, può rivelarsi un deficit e la stessa dialettica nell’area renziana sulla gestione migratoria potrebbe non finire qui. Il Pd ha fissato la linea del Piave al 25%, la quota della «non vittoria» di Bersani: se l’asticella s’abbassa, potrebbe aprirsi la questione leadership. Grande coalizione significa scompaginare le attuali coalizioni elettorali e avventurarsi in nuove alleanze governative. Per quanto l’analogia non sia appropriata, l’esperienza tedesca di queste ore (la rinuncia del socialdemocratico Schulz) conferma i costi del far di necessità virtù anche in una Germania dove i due azionisti si ritrovano sui fondamentali nell’interesse del Paese. Non sembra il caso italiano, perché Pd e Forza Italia restano alternativi sulle cose che contano. Ma anche quando i soci sono i meno lontani come in Germania, non c’è molta gloria per entrambi e il parente povero paga il conto.

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