Le grandi opere
Un passato glorioso

Servirà del gran tempo per smaltire lo choc procurato dallo spaventoso disastro di Genova. Ancor più lunga e laboriosa, oltre che straziante, sarà l’elaborazione del lutto dei parenti per la perdita dei loro cari. Nel frattempo assistiamo al rinfocolarsi dello scontro politico in atto sulle grandi opere. Già aspra in precedenza, ora alla luce del carico di morti, di distruzioni e di lutti provocato dal crollo del ponte Morandi, la polemica si è fatta incandescente. Mentre l’opinione pubblica, sgomenta di fronte all’entità della tragedia consumatasi, è rimasta come ammutolita, sui media hanno buon gioco quanti hanno colto il destro dalla catastrofe avvenuta per avvalorare l’equazione grandi opere=mangiatoia di speculatori in combutta con politici corrotti.

Sul banco degli imputati sono finiti i Benetton, azionisti di maggioranza di Atlantia, concessionaria della rete autostradale, unitamente ai passati governi, accusati di averli «coperti politicamente».

Il rovinoso cedimento del ponte si presterebbe invero a considerazioni anche di segno diverso e non per questo meno fondate. Cominciando dalla più ovvia domanda. Quando sono in gioco l’incolumità delle persone e l’interesse generale del Paese non sarebbe bene che l’autorità pubblica esercitasse controlli più severi e continui su privati concessionari di un servizio pubblico, sempre sospettabili di privilegiare il proprio tornaconto rispetto al bene collettivo?

Secondo quesito. È il viadotto che va messo sotto accusa o non piuttosto la sua manutenzione? Della sua utilità, anzi della sua insostituibilità, ne è prova irrefutabile lo stato di paralisi in cui è piombata Genova, scissa in due parti incomunicabili, e con il capoluogo ligure tutto il mondo dei traffici, dei collegamenti inter-regionali, internazionali e marittimi. Sostenere invece che «lottare contro il sistema delle grandi opere» sia l’unico modo «per porre fine al sistema che genera simili disastri» non equivale a gettare il bambino con l’acqua sporca?

Terzo dubbio. È fuori luogo rimarcare lo stridente contrasto che emerge, parlando di grandi opere, tra l’Italia di oggi è l’Italia di ieri? L’Italia ottocentesca, l’Italietta liberale derisa dal fascismo, una nazione di poveri contadini, oberata per di più dai debiti della sua unificazione, seppe trovare le risorse per costruire il grosso della rete ferroviaria tuttora in esercizio. Nel ’900 l’Italia democristiana, reduce da una guerra persa e vittima di una pace punitiva, è riuscita ad erigere nell’arco di pochi anni l’unica (a tutt’oggi) grande opera del settantennio repubblicano, l’Autostrada del Sole: un’opera strategica che ha ricongiunto il Sud al Nord, garantendo quel collegamento infrastrutturale senza il quale sarebbe difficile immaginare il grande balzo economico degli anni successivi. Nel confronto, che figura fa l’Italia d’oggi? Settima potenza industriale del mondo, non riesce nemmeno a garantire la manutenzione delle grandi opere avute in eredità. Figuriamoci delle nuove. Eppure nel mondo assistiamo ad una corsa affannosa per dotarsi di infrastrutture capaci di assicurare posizioni di vantaggio nella conquista dei mercati futuri.

Sono tutte domande, queste, che possono attendere una risposta. Non possono attendere risposta viceversa quanti hanno un bisogno vitale di riavere i collegamenti persi. Non sarebbe consigliabile allora rimboccarsi tutti le maniche, come hanno fatto encomiabilmente i soccorritori, i vigili del fuoco, i volontari della Protezione civile, i funzionari della Polstrada accorsi a Genova a rimediare il rimediabile, piuttosto che attardarsi ad inscenare autolesionistici processi sommari di piazza?

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