L'Editoriale
Giovedì 06 Aprile 2017
Le casse dello Stato
Il costo dei furbi
Notizie recenti riportano alla ribalta un malessere antico del nostro Paese. L’incapacità di ridurre in termini accettabili l’evasione fiscale e di colpire coloro che procurano danni alle finanze pubbliche. Il dato sui mancati introiti da parte dello Stato di somme derivanti da sentenze di condanna nei confronti di chi procura danni all’erario è dirompente. Negli ultimi 5 anni la Corte dei Conti ha emanato sentenze definitive di condanna per un totale di 775 milioni di euro. Di questi sono stati realmente incassati soltanto 220 milioni. Con una differenza 555 milioni di euro: 111 milioni all’anno.
A questa montagna di soldi vanno idealmente accomunati i 110 miliardi di euro annui, ai quali autorevoli stime fanno ascendere il totale dell’evasione fiscale. Quasi un quarto di miliardo di euro ogni 365 giorni. Un diluvio di denaro che non entra nelle casse dello Stato, restando attaccato alle mani di cittadini e funzionari pubblici infedeli. Si tratta di due fenomeni distinti ma che si intrecciano nel risultato complessivo di depauperare le casse dello Stato, producendo l’effetto di gettare sulle spalle dei contribuenti onesti il peso di oneri fiscali gravosissimi. Il raccordo è tanto lineare da configurarsi come un’equazione: i soldi che lo Stato non incassa o non riesce a recuperare devono necessariamente uscire dalle tasche dei cittadini che pagano le tasse. A causa di tale perversa spirale, l’Italia combina un livello di pressione fiscale da Paese scandinavo con servizi mediamente da Terzo mondo.
Cosa fare? Per prima cosa sarebbe lodevole che le forze politiche (in specie quelle che di volta in volta vanno al governo del Paese) la smettessero di sbandierare la promessa - che si rivela puntualmente una chimera - di abbassare le tasse. I governi che hanno messo mano a riduzioni della tassazione diretta hanno, nel contempo, adottato provvedimenti che generavano altre forme di prelievo fiscale. Il conto, nell’insieme, non è mai andato a favore dei contribuenti. Fin qui, benché ci sia poco da stare allegri, siamo nel terreno delle scelte politiche, che possono essere criticabili ma sono legittime, perché assunte sulla base della legittimazione popolare derivante dal voto.
L’orizzonte diventa fosco allorché si analizzano gli strumenti che lo Stato ha per evitare sia gli sprechi del denaro pubblico, sia l’odioso fenomeno dell’evasione fiscale. Sono tre i pilastri sui quali nel nostro sistema amministrativo - a somiglianza di quelli di altri Paesi - sono fondate le funzioni di prelievo e di controllo. L’amministrazione finanziaria che provvede a incamerare il gettito fiscale e, nel contempo, ha il compito (anche attraverso uno specifico Corpo di polizia) di evitare frodi fiscali ed evasione. Che, su questo versante, lo Stato non sia mai riuscito a funzionare a dovere è noto anche alle pietre. Le ragioni sono complesse e rinviano a intrecci affaristici che coinvolgono pezzi della società civile, della politica e delle istituzioni. Si può soltanto far rilevare come la politica mostri un interesse il più delle volte di facciata alla lotta all’evasione, che andrebbe condotta con più tenacia e più largo impiego di risorse finanziarie e umane. Il secondo pilastro era costituito da una rete di controlli statali. Nelle prefetture esso era impersonato dalla figura del vice prefetto ispettore. Nel modello di Stato decentrato ruolo importante avevano i Comitati regionali di controllo, poi aboliti. Nell’insieme, il sistema tradizionale dei controlli è stato smantellato senza che si delineasse un modello più funzionante.
Infine, pilastro centrale, la Corte dei Conti, la quale - nel passaggio dal controllo sugli atti dell’amministrazione a quello sull’efficacia della gestione del denaro pubblico - ha evidenziato numerose incertezze. Aggravate da leggi scellerate che hanno annacquato il rigore delle norme sanzionatorie verso i trasgressori. Risultato finale: una magistratura quasi totalmente disarmata rispetto ai suoi compiti gravosi.
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