L’azzardo della Brexit
presenta il conto

Come una vendetta dello straniero offeso, si è abbattuta sul governo inglese la sentenza dell’Alta Corte che impone un passaggio parlamentare, con relativo sì o no, prima che venga avviata la procedura per l’uscita dall’Unione Europea. Un risultato tutto da ascrivere alla tenacia di Gina Miller, donna-manager inglese ma nata in Guyana, e Deir Dos Santos, parrucchiere inglese nato in Brasile, che hanno portato fino in fondo, a colpi di carte bollate, la battaglia anti-Brexit.

Il governo del premier Theresa May ha fatto ricorso, ben ricordando che a suo tempo 480 parlamentari votarono a favore del «Remain» e solo 159 per il «Leave». Vedremo come andrà a finire. Con quel pronunciamento, però, l’Alta Corte ha avuto almeno il merito di riportare l’attenzione su due temi che nel giugno scorso, quando si tenne il referendum, furono troppo in fretta sepolti dagli effetti dell’euforia degli anti-Ue e dello stupore dei pro-Ue.

Il primo tema è questo: non vi è un altro caso, nella storia del Regno Unito come in quella di qualunque altro Paese d’Europa, in cui una decisione così importante e gravida di conseguenze come la Brexit sia stata presa con uno strumento della democrazia rozzo come un referendum a turno unico e a maggioranza semplice. La democrazia diretta, la volontà dei cittadini… Tutte belle cose. Ma al dunque, una risicata maggioranza di inglesi (chiese di uscire dalla Ue il 51,9% dei votanti), in larga parte incapaci di giudicare una materia così complessa, ha deciso l’indirizzo futuro dell’intera Ue, una comunità di 504 milioni di abitanti. È giusto? È sensato? Forse sì, forse no. Ma la sentenza dell’Alta Corte, senza dirlo, stabilisce un principio: non si può avere la democrazia rappresentativa a singhiozzo, scartandola quando fa comodo. Perché un’altra cosa da ricordare è che il referendum fu un’idea (balorda) di David Cameron per sfruttare l’onda populista a fini elettorali, essendo lui convinto che la Brexit non sarebbe mai passata. In altre parole: il referendum, null’altro che un trucco di potere, segnò un punto bassissimo per la dignità della politica, non il contrario.

Secondo tema: siamo proprio sicuri che il Regno Unito voglia la Brexit? Molti inglesi sì, soprattutto tra gli anziani e nella classe operaia bastonata dalla crisi. Ma il Regno Unito come sistema davvero vuole mollare gli ormeggi con il continente? C’è qualche ragione per dubitarne. In primo luogo, il governo della May, a parte i discorsi roboanti del ministro degli Esteri Boris Johnson (che peraltro ha passaporto Usa in tasca), ha prodotto poco in tal senso. Traccheggia, e per ora si gode i residui effetti di quelle assurde condizioni di miglior favore di cui il Regno Unito ha sempre goduto all’interno della Ue.

Ma non solo. Tra le valute di peso, la sterlina è quella che ha avuto il peggior andamento durante il 2016. E per il governo May dev’essere stata una beffa atroce veder risalire le quotazioni appena si è sparsa la voce di quanto deciso dall’Alta Corte. Il che acquista significato se si considera che la Borsa di Londra è la più importante d’Europa e che la capitale inglese è il centro guida della finanza continentale, oltre che uno dei motori dell’economia inglese. Una sterlina forte dentro la rete di relazioni commerciali della Ue è segno di salute economica per il Paese. Una sterlina debole fuori da quella rete vuol dire, tra l’altro, pagare di più le importazioni. E il Regno Unito importa il 35% dei beni di cui ha bisogno da quattro Paesi europei: Germania, Olanda, Francia e Belgio. Ora impazzeranno le discussioni. Sono quelle che avremmo voluto vedere prima del referendum, non dopo. Ma tant’è. Meglio tardi che mai.

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