L'Editoriale
Giovedì 17 Maggio 2018
Lavoro manuale
Ora c’è il robot
L’ultimo rapporto Istat, ovvero la fotografia dell’Italia che cambia, disegna un quadro abbastanza ottimistico sul mondo del lavoro, in aumento in tutto il Paese, in particolare per le donne, con la ripresa dei consumi delle famiglie. Ma se andiamo a guardare i particolari di questo quadro dai colori finalmente accesi, come i dipinti di Matisse, notiamo che dopo dieci anni di crisi il Paese è profondamente cambiato e nuove professioni sostituiscono quelle vecchie, quelle ottocentesche potremmo dire. Il lavoro manuale, ad esempio, segna una decisa contrazione: tra il 2008 e il 2017 sono scesi di quasi un milione gli occupati classificati come «operai e artigiani», mentre si contano oltre 860 mila unità in più per le professioni del commercio e dei servizi.
In questa definizione rientrano gli impiegati con una bassa qualifica. Coloro che potrebbero essere ribattezzati come i nuovi colletti bianchi. E ancora, se nell’industria si sono perse 895 mila unità, nei servizi se ne sono guadagnate 810 mila.
La prima osservazione da fare è che i timori sopravvenuti negli anni di crisi si sono avverati: non tutti coloro che hanno perso il lavoro lo riacquisteranno venuta meno la congiuntura economica negativa. Nella manifattura, nelle costruzioni e in agricoltura la crescita del numero di occupati e del monte-ore lavorate è ancora molto contenuta. Nel comparto dei servizi invece il lavoro ha ripreso a crescere prima che negli altri macro-settori e a ritmi più sostenuti. Il numero di occupati nel terziario, dopo un andamento altalenante nel periodo 2008-2013, torna ad aumentare stabilmente. Il maggiore apporto alla crescita occupazionale nel terziario va ascritto soprattutto ai comparti di commercio, trasporti, alloggi e ristorazione e all’aggregato dei servizi alle imprese.
È il Paese che ha cambiato pelle. L’Italia «potenza turistica», come si intitolava un recente congresso di Confindustria. Gli stabilimenti balneari, gli hotel, la ristorazione, i musei, i parchi dei divertimenti, le mostre, le manifestazioni, i concerti, i musei, i trasporti. Tutto questo sta crescendo e fornisce nuove opportunità d’impiego. Del resto da tempo gli istituti alberghieri hanno superato gli istituti tecnici per numero di iscritti. Naturalmente non c’è solo questo mutamento legato al tessuto economico, vi sono anche motivazioni che vengono da lontano e che attengono a questa nostra epoca globale. I robot, nelle industrie, stanno sostituendo gli uomini. È un bene sotto il profilo della fatica e dell’alienazione, quella denunciata da Chaplin in «Tempi moderni» già nel 1936, ma un male per chi ha perso il posto senza avere la possibilità di riconvertirsi, specialmente se ha superato la soglia dei 50 anni. Negli Stati Uniti l’automazione ha cancellato milioni di posti di lavoro. E uno degli ultimi rapporti della prestigiosa multinazionale di consulenza strategica in campo industriale e finanziario McKinsey conferma che quasi la metà dei mestieri svolti nel mondo da persone fisiche potrebbero essere automatizzati da macchine. In Italia il tasso di sostituzione si aggirerebbe tra il 49 e il 51%. Significa che più della metà dei lavoratori del nostro Paese, pari a circa 11 milioni di persone, potrebbero essere sostituiti da un robot digitale ad alta tecnologia. Vanno in soffitta mansioni semplici e ripetitive, soprattutto legate all’assemblaggio. Ma anche in ufficio sono a rischio mansioni come l’inserimento dei dati. Si va dal settore delle costruzioni alla meccanica, dalla grande distribuzione alle compagnie assicurative. Ai vecchi mestieri succedono quelli nuovi o super innovativi. Sempre secondo McKinsey circa un terzo dei lavori svolti oggi dagli americani 25 anni fa non esisteva: piloti di droni, sviluppatori di «app», esperti digitali, meccanici specializzati in veicoli elettrici sono solo alcuni esempi di queste nuove categorie. E prevedere quali lavori nasceranno nei prossimi 25-30 anni è praticamente impossibile.
Un fenomeno che non pare destare particolari preoccupazioni nel mondo degli imprenditori e dei sindacati. Non parliamo poi della politica. Eppure è il problema fondamentale con cui ci misureremo da qui ai prossimi anni.
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