L’auto elettrica accelera
Rivoluzione necessaria

Alla fine del 2020, cioè fra poco più di due anni, Volkswagen disporrà di 16 stabilimenti nel mondo per la produzione di auto elettriche. È la rivoluzione di un marchio che in nome del diesel ha fatto la sua fortuna e prodotto la sua rovina. In un colpo solo l’azienda di Wolfsburg ha distrutto la certezza della proverbiale affidabilità tecnica e con essa l’illusione di un possibile diesel pulito. Dopo il trucco delle emissioni chiunque in ogni angolo del globo è autorizzato a dire: anche i tedeschi barano. La conversione all’elettrico sa di

pentimento ed al contempo di impegno morale, nella lotta all’inquinamento ci siamo anche noi. La velocità con cui il gigante tedesco dell’automobile si è buttato sull’elettrico rende evidente l’imbarazzo. Che necessità c’è di cambiare tutto in fretta e furia quando da anni si sapeva che i motori a gasolio e a benzina erano diventati incompatibili con la tutela dell’ambiente? Il concorrente Toyota ha investito per tempo sull’ibrido. Una soluzione intermedia in attesa di verificare i progressi nell’elettrico e nell’idrogeno e quindi muoversi in una prospettiva sostenibile. Anche perché l’elettrico ha futuro immediato nella mobilità cittadina ma presenta problemi di autonomia sui lunghi viaggi. Sia per le batterie che non garantiscono percorrenze adeguate e sia per la mancanza di colonnine di rifornimento distribuite in modo capillare. L’impatto sull’ambiente dello smaltimento delle batterie esaurite è tutto da verificare quando la mobilità elettrica sarà a pieno regime.

A Wolfsburg queste cose le sanno ma anziché dedicarsi alla ricerca di soluzioni alternative si sono concentrati nel mantenimento del presente. Poiché in Usa i loro motori non avrebbero retto i parametri dell’agenzia di controllo americana hanno pensato di aggirare l’ostacolo. Li ha guidati la fiducia nell’eccellenza tecnica. Troppo sofisticate erano le manipolazioni per essere scoperte. Vi è in Germania un modo di concepire l’industria che si fonda sull’affidabilità e solidità del prodotto, sull’idea che è la manifattura l’elemento portante. In tempi come i nostri nei quali l’innovazione tecnologica rende obsoleto in brevissimo tempo qualsiasi servizio e prodotto, la capacità di adattarsi diventa decisiva. Questo legame affettivo all’industria tradizionale ha le sue ragioni storiche. L’inventore dell’automobile si chiama Karl Benz e Ford in America altro non ha fatto che massificare la produzione. E del resto anche in Italia a Rudolf Diesel rendiamo tributo quando ne nominiamo il motore. Però i tempi sono cambiati e quelli che dettano legge nell’economia mondiale sono i giganti del Big Tech Google, Amazon, Facebook, veri e propri oligopoli.

Tesla è meno invasiva ma con la sua profetica fissazione sull’auto elettrica ha condotto i colossi tedeschi a cambiare registro. Ciò che guida l’innovazione è la ricerca informatica, la creazione dei software che aprono nuovi orizzonti al vivere comune: un esempio per tutti, Walmart ha inaugurato un supermercato senza cassiere. Tutto si svolge con i sensori e il pagamento finale lo svolge una app del cellulare. I tedeschi hanno capito ed hanno introdotto in tutta Europa a tappe forzate l’industria 4.0. Una forma imprescindibile di miglioramento produttivo per applicare diffusamente i robot e le innovazioni tecnologiche alla fabbrica. L’unico modo per tener testa alla concorrenza cinese e quindi puntare sulla qualità. Ma nella sfida informatica ha perso il treno. Una dimensione del genere Silicon Valley in Germania non esiste e stiamo parlando del primo Paese industriale d’Europa. E qui si evidenzia il ritardo tedesco: un mondo industriale legato alla tradizione e in affanno rispetto ai mutamenti veloci del sapere informatico.

© RIPRODUZIONE RISERVATA