L’appello (sospetto)
dell’Ue sui migranti

A cosa alludeva il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk nel dichiarare in margine al G-20 cinese che l’Unione europea
«è vicina al limite» della sua capacità di accoglienza dei nuovi flussi di rifugiati? E soprattutto: a chi si rivolgeva nel chiedere al resto del mondo di condividere la responsabilità del fenomeno? Al governo di Pechino, alle prese con la gestione di un miliardo e mezzo di cinesi che dalle campagne si stanno riversando sulle città? Agli Stati Uniti, che stanno dall’altra parte dell’Atlantico?

Al Giappone, alle prese con una stagnazione che dura da decenni? Anche il suo collega Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, afferma che i Paesi europei hanno fatto «uno sforzo sproporzionato». I Paesi del G-20, aggiunge Tusk, devono collaborare nel gestire un flusso di 65 milioni di persone nel mondo, di cui quattro milioni quelli provenienti dalla Siria.

Giusto pretendere azioni di corresponsabilità nella gestione della lotta ai trafficanti di uomini, o nel chiedere di portare capitali nei Paesi da cui partono i flussi migratori, ma sarà difficile che il mondo dia una mano più di tanto a quello che è un problema sostanzialmente europeo, poiché l’Europa sta nel «grande lago» del Mediterraneo, come lo chiamava Braudel. Per non parlare del fatto che se è vero che i Paesi del Sud Europa – Italia e Grecia in primis – sono sull’orlo della saturazione, altrettanto non si può dire dei Paesi dell’Est e del Nord Europa. Prima di chiedere aiuto al mondo Tusk potrebbe chiamare la gran parte dei Paesi membri alle loro responsabilità, a cominciare dalla sua Polonia. Finora le politiche europee di gestione dei richiedenti asilo hanno collezionato sedici vertici in un anno, se abbiamo contato bene. Riunioni su riunioni inconcludenti cui si aggiungono un vertice speciale Onu, uno della Nato e un incontro molto coreografico sulla nave San Giusto con Ban Ki-Moon «da qualche parte nel mare».

Nel frattempo nel Canale di Sicilia si continua a morire e molti più morti ci sarebbero se non fosse per il lavoro senza risparmio della nostra Marina, alle prese con le ondate di migranti che si accingono a lasciare le coste africane per settembre e ottobre, tradizionali mesi di sbarchi (e di tragedie). «Non dobbiamo mai più permettere che il caos del 2015 si ripeta in Europa», proclama Tusk, in vista del vertice di Bratislava del prossimo 16 settembre, dove pare che si parlerà di tutt’altro. Ma intanto a fronte di due milioni di profughi in Libano e di altrettanti in Turchia, al cui gran baazar paghiamo tre miliardi di euro l’anno perché Erdogan non li lasci andare, in Europa si dice no a quote di molto inferiori. Se si eccettuano la Germania, che accoglie 160 mila migranti pari il 18, 4 per cento dei richiedenti asilo (in gran parte siriani, come è noto), la Francia (il 14 per cento) e l’Italia (che con metà del territorio francese ne accoglie il 12 per cento, pari a 120 mila arrivi) agli altri Paesi rimangono le briciole, per non parlare dei muri della vergogna alzati dall’Ungheria, che ha perfino fatto ricorso alla Corte europea di Giustizia contro un misero 1,8 per cento, meno di 20 mila profughi.

Ma Danimarca e Svezia, le tanto elogiate regine scandinave di civiltà e welfare, non hanno fatto di meglio, introducendo controlli alle frontiere contro qualche migliaio di rifugiati. Oltretutto quando si tratta di mettere in campo progetti di cooperazione internazionale i Paesi del Nord e dell’Est dicono sempre no, per non mettere mano ai loro portafogli pubblici e rovinare i loro conticini in ordine del bilancio statale. E allora di cosa stiamo parlando?

E infatti il primo a sentire puzza di bruciato è il premier Renzi che ha subito raffreddato i proclami del duo Tusk-Juncker: «Sui migranti l’Unione ha uno sguardo miope, aspettiamo ancora i fatti». Come dargli torto?

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